Da quando è aumentata (almeno in apparenza) la sensibilità ambientale nella popolazione, l’industria si è adeguata. È diventata prassi abituale utilizzare marchi con il suffisso “eco”, oppure definire un prodotto “eco-friendlytout court, oppure ancora utilizzare il verde come colore dominante nei marchi. Queste tecniche è dimostrato che garantiranno una migliore penetrabilità nel mercato dei consumatori. Un esempio per tutti: l’industria dell’auto, sicuramente una delle più inquinanti…Eppure non c’è stata marca che in questi anni non abbia puntato sul “verde”, o perché produceva auto a gpl o a metano, o perché il motore riduceva le emissioni, o perché l’auto era in parte realizzata con materiali riciclabili.

Ma da qualche decennio si è anche diffuso un fenomeno più inquietante, che va sotto il nome del neologismo “greenwashing”, letteralmente “lavarsi col verde” (termine coniato nel 1990 per evidenziare questa semplice spennellata di verde di aziende come Dupont, Chevron, Bechtel). Cioè quel fenomeno in base al quale delle aziende si attribuiscono impropriamente valenze di carattere ambientale che invece non gli spetterebbero.

Il fenomeno non è ovviamente tipico del nostro paese, ma è a livello planetario, tant’è che Greenpeace ha promosso una specifica battaglia (Stopgreenwashing) per individuare e segnalare i casi agli organismi competenti.

In Italia la pratica è all’attenzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, trattandosi di casi di pubblicità ingannevole. Una delle prime pronunce di condanna relative al greenwashing fu contro la Snam per il suo slogan “Il metano è natura” nel 1996. Altre sentenze seguirono, come quelle contro le acque minerali San Benedetto e Ferrarelle, o contro la Coca Cola.

Il problema specifico è che, stante il ritorno economico che ne può avere, un’industria è forse anche disposta a rischiare una sentenza per pubblicità ingannevole: la sentenza arriverà dopo un po’ e nel frattempo nell’immaginario collettivo avrà fatto breccia l’immagine verde che l’industria si voleva dare. Il problema generale è che molte pubblicità sono sottilmente ingannevoli senza essere necessariamente sanzionabili, oppure si fanno belle di risultati in campo ambientale, quando solo una parte della loro attività o dei loro prodotti è ecocompatibile. Ad esempio un’industria alimentare che affermasse di rispettare l’ambiente perché utilizza energia da fonti rinnovabili non sarebbe sanzionabile se ciò corrisponde a verità, ma poi nei prodotti la stessa azienda usa olio di palma proveniente da deforestazioni. Ritornerò sull’argomento nel prossimo post.

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