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J. Vermeer, Veduta di Delft, 1660 ca.

Detersa, o levigata da un panno iridescente, come una coltre in cui l’occhio possa lentamente stemperarsi ‒ così si profila la campitura di Vermeer, esperienza di una luce qualitativa, come quel ‘nimbo’, quel “minuscolo lembo di muro giallo” la cui “preziosa materia”, viscosa quanto incomparabile, pareva a Bergottealter ego per Anatole France nella Recherche proustiana ‒ il ‘prototipo’ cui ogni arte avrebbe dovuto attendere. Ma innanzi alla Veduta di Delft Bergotte è altresì Proust medesimo il quale, nella primavera del 1921, già prostrato dalla malattia, si recava allo Jeu de Paume per visitare l’Exposition Hollandaise dove, tra i molti irrinunciabili, primeggiava appunto la Veduta. All’amico critico d’arte Jean-Louis Vaudoyer, aveva scritto: “[…] non sono andato a dormire per recarmi a vedere questa mattina Vermeer e Ingres. Volete condurre questo morto che sono io e che si appoggerà al vostro braccio?” ‒ ed ecco allora che i passi malfermi di Bergotte, in un iniziatico connubio di vertigine e smarrimento, ripercorrono quelli dello scrittore: la sua misteriosa visita-visitazione ‒ e così il ‘formidabile’ deliquio in cui cadde innanzi al “quadro più bello del mondo”, “[…] dipinto così bene da far pensare, se lo si guardava isolatamente, a una preziosa opera d’arte cinese, d’una bellezza che poteva bastare a se stessa”.

Già, perché, almeno in prima istanza, è proprio questo senso d’appartata compiutezza ad acquietare l’osservatore di Vermeer: come Georges de La Tour, suo elegiaco controcanto, anche l’olandese interpreta la “parte serena delle tenebre” (Malraux), è cioè capace di una pittura che sa depositarsi in trasparenza, dove l’integrità metafisica dell’opera, quel suo stato d’eterea sospensione ‒ natura morta umana o assiderato teatro di posa ‒, s’inquadra per compattezza in un interno, o comunque nella ‘misura’ di uno spazio minuziosamente calibrato, dove la luce esteriore che dalle finestre e dai flambeaux posa sugli oggetti, non fa che replicare la chiarità interiore dei soggetti ‒ il segreto di Vermeer sarebbe dunque quello di saper dar luogo a una pittura in cui, hegeliana mente, luce soggettiva e luce oggettiva coincidono: impossibile discernere la stasi dei corpi dallo Stillleben delle dramatis personae.

Come ciò sia tecnicamente possibile, l’ha spiegato accuratamente Philip Steadman nel suo Vermeer’s Camera (anche se il contributo più noto ‒ ancorché provocatorio ‒ a riguardo è forse la famosa tesi elaborata dal fisico Charles Falco in collaborazione con David Hockney secondo cui, appunto, l’incantato realismo della pittura fiamminga deriverebbe di fatto dal ricorso alla camera obscura ‒ ed in qualche caso alla camera lucida ‒ al fine di ottenere quell’effetto di prodigiosa accuratezza che anticipa sì magnificamente il mezzo fotografico).

Eppure qualcosa non torna e, fatte salve le smentite specialistiche (coi detrattori capeggiati da David G. Stork, impegnati a sconfessare la teoria di Hockney sulla Secret Knowledge vermeeriana), mi pare che proprio Bergotte (dunque un interposto Proust) ed alcune più recenti riflessioni di Lorenzo Renzi, filologo egregiamente eclettico, possano dare l’abbrivio ad un discorso alternativo, per il quale una più essenziale inquietudine alimenta la strategia pittorica dell’olandese ‒ ciò che rende ogni sua opera anzitutto una “cosa mentale” (Daniel Arasse, L’ambizione di Vermeer), dunque una sorta di ‘verismo speculativo’ fondato non tanto sulla ripetizione della realtà, quanto piuttosto su di una continua messa in scena di ciò che, proprio in senso al costituirsi della quotidianità, ne vanifica e disgrega ogni rappresentazione che voglia intendersi esaustiva giacché fondata su di un criterio di fotografica corrispondenza. Il che, a mio parere, avviene secondo due opposte direttrici ‒ una (1) micrologico-topologica e l’altra (2) macrologico-geografica ‒ che vado appunto brevemente ad esporre.

1. Nel primo caso mi riferisco al modo in cui Vermeer si rapporta alla sostanza del colore. Lo si nota facilmente nel procedimento con cui, ad esempio ne La veduta di Delft, sono ‘punzonate’ le facciate lungofiume: giustapponendo minimali ‘stoccate’ di colore (con pioneristica perizia puntinista) a più lasche, ‘emollienti’ pennellate. La texture risultante, lungi dal mimare la trama del reale, ne riqualifica fisiologicamente l’imprecisione. Ciò significa che sul piano micrologico, lavorando a ridosso del minimo intervallo percettivo, l’operazione di Vermeer consiste nell’ottenere un’illusione fisiologica di tipo realista ‒ il carattere fotografico dei suoi dipinti ‒ manipolando ‘idealisticamente’, cioè secondo un processo arbitrario del tutto indipendente rispetto allo statuto empirico dei fenomeni, il materiale di cui la tela è pregna. Egli produce cioè un aspetto, un’‘emergenza’ realistica, a partire da un’alterazione topologica del tutto irrealistica: un’astrazione differenziale. L’aveva compreso egregiamente Leibniz ‒ di cui, secondo Farinelli (La crisi della ragione cartografica), Vermeer rappresenta non a caso la “quasi algoritmica traduzione in termini pittorici” ‒: “[…] Quando percepiamo il color verde di una polvere mescolata di giallo e di azzurro, noi percepiamo il giallo e l’azzurro confusi in particelle minutissime, ma non ce ne accorgiamo, e immaginiamo così a noi stessi un ente nuovo”. Ebbene, proprio quest’“ente” non è allora che il risultato fisiologico, ottenuto sul piano macroscopico, di un’operazione topologica condotta a livello delle particelle elementari che costituiscono micrologicamente l’“epidermide tessile” (ancora Farinelli) dell’opera pittorica.

2. Prendiamo infine come esempio il dipinto, oggi alla Frick Collection di New York, Soldato con ragazza sorridente.

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J. Vermeer, Soldato con ragazza sorridente, 1658 ca.

È esempio eminente, dacché racchiude in singola cornice alcuni motivi fondamentali dell’opera vermeeriana: si tratta infatti di un interno ‒ vera e propria monade spaziale semichiusa ‒ che riesce sul mondo tramite due distinte linee di fuga: una simbolica ‒ la carta geografica che rappresenta le provincie d’Olanda e della Frisia Occidentale ‒; e l’altra, davvero effettiva, costituita dalla finestra che ‘irrora’ gli elementi sulla scena (il dipinto, che riprende puntualmente i Giocatori di carte di Pieter de Hooch, istituisce un vero e proprio paradigma, quello legato appunto al binomio finestra-mappa che, mutatis mutandis, ricorre in almeno altri sei dipinti dell’artista, tra cui il celeberrimo Allegoria della pittura). Ora, in che mai consiste l’intrinseca ‘deriva geografica’ che inquieta il modello leibniziano-vermeeriano vanificando ogni aspirazione alla chiusura? Da un punto di vista macrologico, cioè quanto alla sua forma complessiva, l’intera struttura del dipinto si costituisce a partire dall’ineliminabile relazione ad un fuori, da un’insopprimibile, costitutivo processo di dislocamento (de-territorializzazione, direbbe Deleuze) per il quale l’interno borghese (ossia il ‘rappresentato’) esiste sempre e soltanto in rapporto alle linee di fuga che ne rappresentano la soppressione ‒ o quantomeno la destituzione per eccesso ‒, vale a dire: la finestra come accesso vitale dischiuso sul mondo e, altrettanto espressamente, l’irruzione di uno spazio barocco, inaddomesticabile, affetto da forme imprevedibili, sottratte al dominio della linearità e della previsione, dove l’anomalia cartografica rappresenta appunto l’infrazione antieuclidea, cioè l’impossibilità, per qualunque rappresentazione, di proporsi come articolazione in sé coerente e dunque semioticamente autarchica.

Ma se quanto si è tentato di mostrare fosse vero, allora l’opera di Vermeer andrebbe giocoforza ripensata a partire da questa sua intrinseca inquietudine, muovendo cioè non tanto dagli elementi che ne ‘ingombrano’ la scena, bensì da quanto, presente come semplice possibilità di fuga, come mappa o finestra, come fuori o altrove, sovverte l’unità della rappresentazione facendo leva sulle sue carenze, cioè innestandovi quel desiderio ‒ metamorfosi cartografica o divenire del mondo ‒ che sulle prime sembrerebbe invece essere interdetto.

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