Anche dietro al cinema di James Gray c’è l’ombra del viaggio di una famiglia, emigrata verso gli Stati Uniti dalla nativa Russia, questa volta non dalla Sicilia, dopo la Prima guerra mondiale. Cinque pellicole in vent’anni, il cineasta di origini ebreo-russe nato nel 1969, da sempre, costruisce con coerenza e un pizzico di compiacimento in più ad ogni mossa storie d’appartenenza e lontananza, ambizione verso un sogno di vita nuova e sua distruzione: in questo, il nuovo C’era una volta a New York – nelle sale distribuito da Bim dal 16 gennaio – costituisce il suo lavoro più scoperto, a partire da quel titolo originale, The Immigrant, barattato per uno ben più ammiccante e di cassetta.
Melodramma in sontuosa cornice storica, il film racconta l’arrivo di due sorelle polacche a Ellis Island nei primi anni Venti: se Magda (Angela Sarafyan) viene messa in quarantena perché affetta da tubercolosi, Ewa (Marion Cotillard) finisce nelle mani dell’ambiguo Bruno Weiss (Joaquin Phoenix, alla quarta esperienza con Gray), un impresario-sfruttatore che la farà prostituire, dall’altro lato del triangolo, invece, Orlando, un illusionista (Jeremy Renner). Alla base della sceneggiatura ci sono i racconti dei nonni del regista, la ricerca di una seconda possibilità nella terra delle opportunità, il legame strettissimo tra spettacolo e corruzione, l’amarezza di non trovare una casa per il proprio cuore, la nostalgia per l’Europa. In due parole, tutto quello che nell’esordio Little Odessa (1994) o in I padroni della notte (2007) veniva dato per assunto da generazioni.
Ecco che, in termini narrativo-cronologici, questa potente istantanea di un esodo rappresenta il prologo ideale delle altre quattro storie raccontate finora, tra mimesi del gangster movie e tragedia famigliare, ricerca del pezzo da maestro e costruzione di una precisa mitologia registica. Trattandosi di un cineasta dalla cifra e dalle idee tanto chiare, infatti, risulta piuttosto facile fare il gioco delle somiglianze e degli omaggi: alla Little Italy di Scorsese si sostituisce quella Brighton Beach localizzata a sud di Brooklyn (nota anche con il nome di Little Odessa per via dei tanti residenti originari dalla città ucraina), ai battesimi in montaggio alternato di Coppola i Bar mitzvah, alle tradizioni cattolico-italiane quelle ebreo-russe.
Titolo da non perdere per chi ama le grandi epopee, gli amori contrastati, gli affreschi storici ambiziosi e i personaggi schiaffeggiati dalla fortuna, C’era una volta a New York mescola le influenze dostoevskiane del precedente Two Lovers (2008), liberissima riscrittura di Le notti bianche, con le dinamiche criminose di The Yards (2000), a tutt’oggi la punta di diamante dell’intera filmografia, per arrivare ai meccanismi e alle relazioni famigliari di I padroni della notte. Non esente da una certa prolissità, indice di una debolezza drammaturgica irreperibile nei precedenti lavori, si tratta della ricercata opera-summa di un regista che, purtroppo per noi, ha capito di poter diventare il primo della classe.