“Per tutta la sua lunghezza, per un chilometro e più da una parte e dall’altra la via Appia era un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti… la via Appia era intoccabile come l’Acropoli di Atene”. Scriveva così l’ “appiomane”, come si definiva, Antonio Cederna nel settembre del 1953 sulle colonne de Il Mondo ne “I gangster dell’Appia”.
Di quell’auspicio poco si è realizzato. Di certo all’interno del comune di Roma. La Villa di Massenzio e quella dei Quintili, sono state musealizzate, cosi come la tomba di Cecilia Metella. Più di recente è stato acquisito dal Ministero dei Beni e le Attività Culturali il sito di Capo di Bove, dove sono state realizzate delle indagini. Per il resto i monumenti che non si trovano all’interno di proprietà private, tra piscine e gazebo, oppure che continuano ad essere riutilizzati come abitazioni, e per questo sostanzialmente inaccessibili ai visitatori, sono nel più completo abbandono.
Spesso immersi nella vegetazione infestante, come nelle tele dei pittori del Grand Tour. Privi di qualsiasi pannello didattico. Al punto che non è infrequente, anche per quelli lungo la strada, che rimangano poco noti ai più. Così accade ai resti, sui lati di via Appia antica, a poche centinaia di metri da Porta San Sebastiano, al di sotto del viadotto di via Cilicia, progettato da Musmeci e Zanini tra il 1979 e il 1981. Sul lato destro della strada, all’interno di una robusta cancellata, la parte più cospicua delle testimonianze archeologiche. Su un fronte di almeno una trentina di metri, oltre ad alcune sepolture scavate nel terreno, diverse strutture funerarie, che in base alle tecniche costruttive possono datarsi tra la tarda età repubblicana e la media età imperiale. A contatto della recinzione c’è anche un tratto di basolato stradale. Più in là una tomba in opera quadrata di peperino, ornata di paraste e un mausoleo a basamento quadrato in laterizi all’esterno, in opera quadrata all’interno, sormontato in origine da un cilindro, ora quasi totalmente demolito. Invece, in fondo, nella zona più lontana dalla strada, ci sono i resti di un sepolcro in opera reticolata che, nonostante le opere di puntellatura, mostrano di essere in uno stato di conservazione quanto mai precario. Non diversamente dai monumenti che sono all’inizio dell’area archeologica, proprio al di sotto del grande edificio nel quale si trova il ristorante “Ar Montarozzo”. Monumenti che rimangono pressoché invisibili per buona parte dell’anno, a causa della vegetazione rampicante e degli di alberi di ailanto che li circondano. Assente anche una generica indicazione sull’esistenza dei resti. Che continuano a non essere visitabili. Mancando qualsiasi musealizzazione dell’area. Nonostante sia stato predisposto un ingresso a tale fine sul lato opposto, da via Cilicia, proprio accanto all’ingresso di servizio del ristorante. Ci si deve accontentare di osservare l’area archeologica dalla strada, muovendosi sull’esile marciapiede esistente.
A colpire più di ogni altra cosa, perfino più dello stato di prolungata precarietà alla quale sembra essere stata abbandonata l’area archeologica, sono i rifiuti visibili all’interno. Bottiglie, carte, fogli di giornale, buste di plastica. Forse anche qualcos’altro, nella zona più lontana dalla strada, che un paio di anni fa, per alcuni mesi, un senzatetto aveva scelto come riparo per la notte.
Una fotografia dell’area, scattata da Cederna alla metà degli anni Cinquanta, restituisce una situazione completamente diversa da quella attuale. Non c’è ovviamente traccia di cancellate. Non esistono le opere infrastrutturali che hanno “chiuso” la vista verso la Colombo. Né ci sono ancora le urbanizzazioni che di lì a poco invaderanno tanto spazio. La modernizzazione era ancora lontana. Lo sviluppo della città appena iniziato.
I lavori per la realizzazione del viadotto avevano offerto l’occasione per scoprire sul lato opposto di via Appia Antica, altre strutture, ancora a carattere funerario. Si è deciso di non distruggerle. Non si è fatto nulla per musealizzarle. L’acqua che vi cola al di sopra in occasioni delle piogge, oltre a assicurare le condizioni migliori alla crescita di funghi e muffe, non contribuisce alla loro conservazione. Sono anch’esse all’interno di una cancellata in ferro. Inaccessibili. Senza alcun indicazione.
Proseguendo lungo la via Appia Antica, ancora per poco, negli spazi dell’ex Cartiera Latina, c’è la sede del Parco Regionale dell’Appia Antica che, come prevede lo Statuto, si occupa, tra l’altro, anche di recupero, tutela e valorizzazione degli habitat naturali e del paesaggio e della valorizzazione dei beni e delle aree archeologiche. Seppure tra le innumerevoli difficoltà, ridare un minimo di dignità a luoghi della storia di tutti, potrebbe essere un’occasione. Per dimostrare che con le idee si può ammortizzare il deficit di risorse.
Il sogno di Cederna sembra svanito. Sopraffatto. Ma forse si è ancora in tempo per fermare almeno l’abbandono.