Il tressette, là dove si respira un’aria di genuina convivialità, è quasi un rito di iniziazione, che arriva a condizionare la posizione occupata all’interno di una rete sociale (di un bar, un circolo, un paese). Essere invitati a giocare al tavolo dei “vecchi” è come esordire in prima squadra per un calciatore della primavera. Un riconoscimento concesso a pochi eletti, che non può essere sprecato: una dichiarazione sbagliata, una giocata azzardata, un clamoroso errore nel rispondere a un invito (o chiamata) potrebbero condannarti per sempre agli occhi dei veterani. Ancor più ambita la condivisione di un’esperienza di gioco con i puristi del tressette, che bandiscono tutte le dichiarazioni (busso, liscio, volo…) come monaci legati al voto del silenzio. Snobbano anche l’usanza di accompagnare una giocata (quando si gioca per primi) con atti sostitutivi di quelli verbali: picchiando sul tavolo dal gioco con le nocche di una mano per dire bussare, e chiedere così al compagno di gettare la carta più alta (da lui posseduta) del seme giocato e tornare a giocarlo; strisciando la carta sul tavolo per dire lisciare (o, giustappunto, strisciare), e informarlo di possederne altre dello stesso seme; lanciare la carta con un movimento della mano verso l’alto per dire volare, e fargli sapere che di quel seme non ne ha altre.
Il tempo in cui il sette forse era “bello”
“Quando la conversazione non era che di famiglia, due tavolini di tresette bastavano; ma se vi erano visite od ospiti […] allora si invadeva la gran tavola col mercante in fiera, col sette e mezzo, o colla tombola. I puritani come Monsignore e il Cancelliere, che non amavano i giochi di sorte, si ritraevano da un canto col tresette in tavola” (Ippolito Nievo, Le confessioni di un ottuagenario, Firenze 1867).
Nell’Ottocento si giocava già in quattro (due contro due), ma per alcuni il tressette deriva il suo nome dal fatto che anteriormente si giocava in tre; più che al tresette col morto vien da pensare alla calabresella (o terziglio), ma l’idea di risalire al lat. tres sitis (‘siate in tre’) non convince. Altri ipotizzano che il tris d’assi, di due, di tre con cui si guadagnano oggi tre punti (il buongioco) si potesse in origine realizzare anche con tre sette. Altri ancora si appellano agli estremi d’una scala di valori, dal più alto (il tre) al più basso (il sette): i sette, pur battuti da tutte le altre carte di peso (i tre, i due, gli assi, le figure), non erano allora semplici scartine.
Non solo per uomini
Un gioco per iniziati
Il tressette è già menzionato, con altri giochi di carte, in un volumetto seicentesco anonimo, dedicato all’ombre (o alle ombre, che però non c’entrano: all’origine c’è lo spagnolo hombre ‘uomo’) e intitolato Giuoco dell’ombre, con alcune annotazioni aggiunte (Roma 1693). A chi spetta il titolo di re dei giochi di carte, si chiede l’autore (p. 16)? Al picchetto o alla bassetta, al trentuno (o trenta e quaranta) o all’ombre? C’è chi attribuisce il primato alla primiera (“giuoco veramente nobile”); chi propende per le minchiate (o per una loro variante: i canelini) o i tarocchi; chi sposa il trionfino o la bazica, la staffetta o il tresette. Responsabile la “varietà degl’ingegni”, che agisce “a somiglianza della diversità de’ gusti, e de stomachi ne i cibi corporali, mentre frequentemente la pratica insegna, che molti gustano, e desiderano, più li cibi plebei, e disprezzevoli, che i più nobili, e delicati”.
Quasi vent’anni dopo, in un pamphlet (Fantasie capricciose trasportate in sensi politici, e morali, Lipsia [Napoli] 1710), un tal Ramigdio Glatesecha avrebbe scritto: “Si conceda alle donne spiritose la vanità, i lussi, i calzoni lunghi, e i passatempi, col giuoco di tresette scoverto, e di sbragare, coi canti, co’ suoni, e colle danze (p. 238). Un gioco nel gioco. Quello pseudonimo è l’anagramma del titolo (Marchese di Gagliato) di un nobile, Giovanni Sanchez de Luna; per il suo diffamatorio libretto sarebbe stato condannato e rinchiuso, per alcuni mesi, a Castel Sant’Elmo.
Con un altro pseudonimo (Quinto Settano), il senese Lodovico Sergardi aveva fatto diffondere a Roma, alla fine del Seicento, quattordici satire in latino. Nell’ultima si menzionava il tressette; il passo che lo conteneva, nella traduzione in italiano dello stesso Sergardi, recitava così: “Oggi al bordello / la gioventù romana si ricrea / al gioco di tre sette” (Otto satire di Settano tradotte in italiano, Amsterdam 1701, p. 96).
Che tempi.