Ho fatto un errore mentre stavo leggendo I mastini di Dallas, magnifico romanzo-verità di Peter Gent, edito in Italia da 66th and 2nd e tradotto in modo eccellente da Roberto Serrai. L’errore è stato quello di leggere, accidentalmente, il finale. Ero arrivato già a 3/4 del libro, mi ero completamente immedesimato nella storia, affezionato al protagonista, speravo in qualche “vittoria umana” e l’occhio mi è andato a quell’ultima dannata pagina. Sono riuscito a riprendere in mano il libro solo ieri, dopo quattro mesi, poiché ero sconvolto. Un effetto che pochi romanzi mi hanno fatto. Un finale devastante, inevitabile. Perfetto.
Ma di cosa parla il testo di Peter Gent, che prima di darsi alla letteratura è stato un giocatore professionista dei Dallas Cowboys? Siamo in Texas, nei primi anni Settanta. Phil Elliot è il flanker dei North Dallas Bulls, ha le “migliori mani” della Nfl e il corpo devastato dai placcaggi. Ogni mattina si sveglia con le narici piene di sangue e le giunture bloccate dall’artrite, ma pur di scendere in campo è disposto a imbottirsi di codeina e fabbricarsi protezioni più leggere della norma, in modo da recuperare un po’ di velocità. Un atleta professionista, d’altra parte, vive per questo: le scariche di adrenalina, il boato assordante degli stadi, uno schema eseguito a memoria. “Il passato è inutile, il presente è dominato dall’ansia e il futuro semplicemente non esiste. L’esperienza è l’unica risorsa, e un giocatore non può fare altro che invecchiare”. Sono le poche certezze che restano quando hai perso fiducia nel collettivo e nel senso stesso del gioco. A che serve il successo di squadra se l’individuo non sopravvive per condividerlo? È la domanda che assilla Phil, mentre cerca di sfuggire alla spirale del football e alla propria esistenza in frantumi aggrappandosi a Charlotte, una vedova di guerra incontrata in uno dei deliranti festini dei Bulls.
Uscito nel 1973, I mastini di Dallas è un viaggio allucinato e profetico nel cuore di tenebra dello sport americano, in cui Gent proietta con effetti grotteschi le paranoie e le distorsioni di quel “complesso tecnomilitare” che era l’America ai tempi del Vietnam. Ma se è vero che all’epoca della prima edizione il libro venne definito un romanzo-scandalo (il presidente dei Dallas Cowboys definì il romanzo una colossale bugia e il suo autore una mela marcia che voleva infangare lo sport nazionale) dedicato al football americano, credo che oggi il testo, liberato dall’attualità di quel periodo, possa essere letto liberamente in tutta la sua dissacrante, corrosiva bellezza. Infondo si tratta di una storia di amicizia, d’amore, di odio e di sopravvivenza che va ben oltre lo sport. Il sottofondo sono le canzoni ormai dimenticate dei Sir Douglas Quintet, la violenta quotidiana vietnamizzazione della vita americana, il razzismo endemico, le droghe libere, il canto del cigno dell’era psichedelica. Come scritto dall’autore nel 2003, nella Prefazione: “è importante che le nuove generazioni comprendano che I mastini di Dallas non è solo un libro sul football, era e resta una profezia che indica la direzione che avrebbe preso l’America, fatta radiografando il fegato, i reni e la colonna vertebrale dei vecchi giocatori della Nfl.”
I mastini di Dallas è un romanzo imperdibile, tradotto magistralmente, con un incipit cinematografico e un finale talmente traumatizzante da portare il lettore (o almeno questo lettore) verso l’armadietto degli alcolici per frenare l’attacco di nervi, la rabbia e la malinconia. Leggetelo. Vi rimarrà impresso.