Che la prima puntata di Presa Diretta sulle “Morti di Stato“potesse scatenare una valanga di reazioni era immaginabile: come c’era da aspettarsi il chiasso di qualche micro-sindacato di polizia, i cui dirigenti saltano sulla sedia ogni qual volta la stampa cerchi di approfondire temi di cruciale importanza come i rapporti tra l’autorità ed i cittadini.

Sarebbe quindi una perdita di tempo, spiegare loro che le forze dell’ordine e la posizione del controllo sociale nell’architettura istituzionale di uno stato moderno, sono tematiche complesse ed ambigue; come dice Amnesty International nel suo “Understanding Policies, la polizia nel mondo è un’agenzia che al contempo viola e tutela i diritti umani: da un lato infligge torture e trattamenti inumani e degradanti, mentre dall’altro svolge un ruolo cruciale per la tenuta democratica di uno stato, garantisce il diritto al dissenso, a volte protegge i cittadini dagli abusi della politica.”

Questa ambiguità si lega a due concetti discussi tanto dall’opinione pubblica quanto dal mondo accademico anglosassone fin dagli anni ’50. Soprattutto il concetto di “responsabilità” (accountability) delle forze dell’ordine e quello di “codice del silenzio” (blue code of silence) sono pilastri del pensiero critico sull’operato della polizia, ben radicati nella cultura nord americana; il primo indica la responsabilità civile e penale degli agenti, per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni mentre il secondo si riferisce alla “codice del silenzio”, una serie di norme non scritte condivise da alcuni singoli e gruppi all’interno del corpo di polizia che esortano a non denunciare abusi commessi da parte di colleghi, nell’idea (errata) che il corpo sia una sorta di fratellanza con una propria soggettività. Nelle storie raccontate da Iacona la scorsa settimana, questi due elementi sono stati il leit-motiv della lunga puntata di Presa Diretta: dal caso Aldrovandi, alla vicenda Rasman, fino alla morte di Stefano Cucchi la polizia ha utilizzato il principio di discrezionalità spingendolo poi, come dicono le diverse sentenze, sul terreno dell’arbitrio. Il “codice del silenzio”ad esempio, è stato un elemento chiave nella vicenda Aldrovandi, dove gli agenti di polizia hanno mentito a proposito delle dinamiche della vicenda poi ricostruita dal tribunale, cercando di sollevarsi (a vicenda) dalle responsabilità. Ma la sensazione più forte, il nodo alla gola che ha stretto chiunque abbia provato a leggere le documentazioni o ad ascoltare le ricostruzioni di quelle storie raccapriccianti è il contesto “ordinario” dove sono maturate: non c’è coinvolta criminalità organizzata, non si parla di estremo degrado sociale. No. Si racconta invece di vicende ordinarie di gente ordinaria, che una volta illuminate dai lampeggianti blu delle volanti, sono diventate l’inferno. L’italiano comune è rimasto scosso perché si è immedesimato nelle madri, nei fratelli e negli amici ed è stato colpito dal senso di claustrofobia che suscita l’assenza di “appello” o di un qualunque strumento che consenta al cittadino di proteggersi dalla discrezionalità che diventa arbitrio. Quis custodiet ipsos custodes (chi controlla i controllori) è un antico dilemma che il grado di elevata complessità della società di oggi, ha messo a nudo con le telecamere che riprendevano i pestaggi a danno dei manifestanti a Genova o con la struggente foto del volto tumefatto di Federico Aldrovandi. Di casi di mala amministrazione è piena la cronaca ma gli agenti di polizia, vale la pena ricordarlo, non sono pubblici ufficiali come gli altri; svolgono un ruolo determinante nella società, essendo gli unici cittadini legittimati all’uso della forza. E se viene da sé che fronteggiare i problemi di ogni giorno di un paese, richiede un certo grado di discrezionalità nell’azione quotidiana è altresì vero che il confine tra questa ed arbitrio è spesso tanto sottile da risultare impercettibile, come dimostrano le storie raccontate da Presa Diretta.

In Italia non esistono efficaci strumenti per i cittadini, in funzione di “controllo dei controllori”: come si sa, non esiste il codice identificativo sulle divise, non esiste un organismo come l’ombudsman inglese, un ufficio dotato di ampi poteri ispettivi che tuteli i cittadini da eventuali abusi delle forze dell’ordine, non esistono deterrenti legali contro la devianza delle forze dell’ordine, a cominciare dall’assenza nell’ordinamento del reato di tortura. Manca inoltre una solida concettualizzazione sul modello di polizia; a livello accademico sono pochi gli studi in italiano (tra tutti spiccano i lavori di Salvatore Palidda docente di sociologia presso l’Università di Genova) a fronte di una vastissima letteratura nordamericana che ha mosso i primi passi addirittura negli anni ’50. Che gli agenti non lavorino tutti in una macelleria messicana e gran parte di loro svolga il proprio dovere con onestà è un dato incontrovertibile ma scaricare le colpe dei tanti noti casi di mala polizia (e dei tanti altri che non si conoscono) solo sulle “mele marce” è un’operazione riduttiva. D’altronde l’ex prefetto di Genova, Angela Burlando, nel libro “Ripensare la Polizia” aveva definito “incompleta” la riforma del 1981. Sicuramente, a giudicare dalla vicende dei “Morti di Stato” e dalla difficoltà dei familiari nell’ottenere giustizia, bisognerebbe ripartire proprio da quei “contrappesi” che mancano alle forze dell’ordine in Italia, tanto sul piano legislativo quanto su quello culturale.

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