Quello della disoccupazione, specie giovanile, è senza dubbio il più grave dei problemi che incombono sull’Italia e sul resto dell’Europa.
Inutile illudersi che tale problema possa essere risolto mediante l’illusoria ripresa economica di cui si parla. A parte il fatto che tale ripresa è, di per sé, del tutto incerta e sarà comunque di proporzioni minime, si parla di jobless recovery proprio per indicare il fatto che non si prevedono incrementi di occupazione in alcun caso.
Si prospetta quindi un immane spreco di risorse umane: intere generazioni condannate alla frustrazione, alla precarietà e alla miseria. Questo è l’avvenire che il capitalismo finanziario riserva al nostro Paese e al nostro Continente.
L’unico modo per invertire la tendenza richiede quindi l’abbandono totale del paradigma economico neoliberale (meno Stato, più mercato) e l’effettuazione di massicci interventi pubblici nei settori che richiedono risanamento sociale e ambientale e sviluppo di nuove prospettive di ricerca. Tanto per fare qualche esempio un piano per la salvaguardia del territorio, un piano per l’edilizia scolastica, uno per le energie rinnovabili, uno per la valorizzazione del patrimonio culturale che, nonostante le criminali sciocchezze proferite da Tremonti al riguardo, può diventare, come ci hanno insegnato fra gli altri Salvatore Settis, Pietro Greco e Bruno Arpaia, una fonte di crescita reale.
Non certamente piani di stampo sovietico decisi dall’alto, ma al contrario mobiltazione di risorse che consentano l’attivazione del protagonismo dal basso, stimolando la crescita sui territori di nuovi attori economici, sociali e politici. Tutto il contrario, insomma, di quanto avviene oggi in Italia, dove vengono imposti localmente progetti nazionali o internazionali nocivi all’economia, alla salute e all’ambiente, come Tav e Muos, mentre si scarica sui Comuni la crisi fiscale dello Stato, rendendoli enti del tutto inutili. Altro che federalismo!
Un punto è sicuro. Ci vogliono soldi. Risorse finanziarie da sottrarre alla spirale distruttiva della finanza speculativa. E, come detto, la rottura con il paradigma neoliberale in Italia e in Europa. Quindi una nuova Europa, che richiede l’apertura di un conflitto con le forze attualmente dominanti che metta in discussione le strutture e le ideologie che ci hanno portato all’attuale disastro.
Date tali premesse, è evidente come le proposte di Renzi in materia di lavoro siano quasi del tutto inutili e pro-forma, dato che il nuovo leader del Pd si guarda bene dall’affrontare i nodi reali della situazione, come d’altronde era prevedibile, vista la storia e le idee del nostro. Alcune di tali proposte vanno nella giusta direzione, laddove ad esempio si intenda semplificare la giungla delle forme, delle regole e dei contributi. Ma semplificare in che direzione e con che risultati? La somma di zero più zero è pari, come è noto, a zero, e a questa inflessibile regola matematica neanche l’intraprendente e furbo fiorentino riuscirà, temo, a sottrarsi.
Stesso discorso vale ovviamente a proposito del tema del reddito minimo garantito, che ci vede, come dimostrato da una recente inchiesta de L’Espresso, fanalino di coda assoluto anche in Europa. Anche qui non basta omogeneizzare i trattamenti previsti, che sono comunque tutti ben al di sotto di ogni parametro dignitoso. Occorre, come richiede Giuseppe Allegri sul manifesto di venerdì scorso, introdurre “garanzie universali: sussidio di disoccupazione, reddito minimo garantito, salario minimo orario e giusto compenso”.
Occorre insomma, su tutti i piani, il trasferimento massiccio di risorse dalla rendita finanziaria al lavoro, quello esistente e quello da creare. Nella realtà si assiste invece a fenomeni del tutto opposti. Una vera e propria tendenza al ritorno in auge della schiavitù, del lavoro senza garanzie, senza dignità e senza salario, come dimostrato dalle proposte in corso per quanto riguarda l’Expo 2015 o i compensi di cinquemila euro all’anno previsti in un recente bando del Ministero dei beni culturali.
Su questo come su altri argomenti (vedi legge elettorale che si ostina a riproporre il bipolarismo fallito, rischiando fra l’altro di entrare in collisione con quanto la Corte costituzionale dirà nelle motivazioni della recente sentenza che saranno pubblicate nei prossimi giorni), Matteo Renzi rischia insomma definitivamente di essere, più che espressione del nuovo che avanza, il tentativo, destinato ad irreparabile fallimento, di travestire con nuovi panni il vecchio che marcisce.