C’è un’Italia che funziona nonostante la politica, la burocrazia e la concorrenza dei Paesi emergenti: è quella dell’industria che vende fuori dai confini nazionali. Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio creato da Fondazione Edison insieme con la società di consulenza Gea, l’Italia ha registrato nel secondo trimestre 2013 un surplus commerciale con l’estero di 29,3 miliardi di dollari, che corrispondono a circa 21,4 miliardi di euro. Un risultato che, nel rapporto tra esportazioni e importazioni, dimostra come la Penisola abbia fatto meglio di altri Paesi europei del G20, a partire da Francia e Gran Bretagna, ma anche, fuori dal vecchio continente, meglio di Canada e Brasile. L’Italia lascia indietro persino la locomotiva brasiliana che ha raggiunto un saldo positivo tra esportazioni e importazioni di 10,3 miliardi, grazie soprattutto alle esportazioni agricole.
Davanti alla Penisola ci sono quattro Paesi più forti nel commercio internazionale: prima di tutti la Cina e, a seguire, Germania, Corea del Sud e Giappone. Ma c’è da dire che, sempre nel secondo trimestre dell’anno scorso rispetto allo stesso periodo del 2012, l’Italia non ha rafforzato solo il suo surplus commerciale di 5,6 miliardi, influenzato in parte dal calo della domanda interna, ma ha anche consolidato le esportazioni del 2,5% aumentando per esempio più della Germania (su del 2,2%).
Se però la Penisola piace così tanto ai consumatori stranieri, che cosa non fa decollare le sue industrie? “Il nostro Paese non soffre al momento di particolari problemi di competitività a livello di commercio estero”, spiega Marco Fortis, coordinatore scientifico della Fondazione Edison che ha realizzato l’indagine escludendo i prodotti energetici. “E’ colpita al cuore dal crollo della domanda interna generato dalle eccessive politiche di austerità che l’Europa ha imposto al nostro Paese”. Di cosa avrebbe bisogna allora l’Italia per ripartire? “Bruxelles ci chiede continuamente riforme per migliorare la competitività ma la principale riforma che l’Italia in questo momento dovrebbe fare riguarda un rilancio dei redditi più bassi per stimolare i consumi interni”, aggiunge Fortis, “e la possibilità, da negoziare con l’Europa, di dare una maggiore spinta all’edilizia e agli investimenti infrastrutturali”.
Rimanendo sul fronte delle esportazioni, secondo un’altra indagine di Fondazione Edison sull’Indice sull’Export dei 99 principali distretti industriali, si scopre anche che l’export tricolore non dipende interamente dal made in Italy della moda e dell’alimentare ritenuti i settori portabandiera oltreconfine. Nei primi nove mesi del 2013 e il trend era uguale già nei primi sei mesi dell’anno, le esportazioni dei distretti italiani specializzati nell’high-tech corrono a +12% tendenziale mentre quelle dei distretti specializzati in alimentari e vino a +7,7% e la moda a +4%. Le aziende dell’automazione, della meccanica, della gomma e della plastica aumentano del 3,4% contro il +2,6% dei marchi dell’arredo.
Complessivamente, i più importanti distretti industriali rafforzavano il loro export del 5,2% a settembre dell’anno passato, rispetto allo stesso periodo del 2012. Se poi si considera l’anno “scorrevole” da ottobre 2012 allo scorso settembre e non i soli primi nove mesi del 2013, i distretti hanno venduto fuori dai confini nazionali merci per 77,8 miliardi di euro, segnando un nuovo record. E quello che colpisce, al di là delle dimensioni dei singoli distretti, è che oggi sono 54 quelli che esportano più di quanto facessero prima della crisi, nel 2008. Tra questi spuntano casi di aree territoriali che crescono di oltre il 50% anche in zone geografiche meno conosciute come Frosinone e Latina con la farmaceutica, la cosiddetta “Etna Valley” con l’elettronica e Napoli con i veicoli aerei. Ma anche per gli esempi industriali positivi, “quando si va a vedere il prezzo che pagano in termini di burocratizzazione, in termini di tassazione e in termini di interessi, emerge uno svantaggio competitivo sistemico nei confronti dei concorrenti”, ha affermato di recente il presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca. “Questo è un tema che non può essere trascurato dicendo che sono i piccoli a soffrire. Tra l’altro credendo che la domanda interna scompaia e che tutti gli artigiani e i professionisti debbano diventare delle piccole molecole di competitività nel mondo”.