Al di là delle dichiarazioni da propaganda, il disegno di legge “svuota province” promosso dal ministro Graziano Delrio, e approdato ai passi finali in Parlamento, è una finta riforma, molto più caotica e dannosa della situazione attuale.
Il dibattito nella stampa ha molto enfatizzato alcuni veri e propri slogan, per smentire i quali basta semplicemente leggere il testo del disegno di legge e i suoi allegati.
Le province non sono abolite. È la prima illusione della propaganda: la legge non elimina affatto le province, che restano operanti, non proprio “vive e vegete”, ma restano.
Si estinguono solo dove si prevede subentrino le città metropolitane. Ma, di fatto, finiranno sostanzialmente per cambiare nome, poiché le città metropolitane acquisiranno tutte le funzioni oggi di competenza delle province, aggiungendone poche altre. Cambierà solo la leadership, in quanto il sindaco metropolitano coinciderà con quello del capoluogo. Con evidente espropriazione per i cittadini della provincia della rappresentatività elettorale, perché gli elettori che hanno eletto il sindaco per risolvere i problemi di una città, finiscono per incidere direttamente anche sulle questioni amministrative di altri centri abitati.
Lo svuotamento è solo parziale: anche l’affermazione che la legge svuoti le province è solo parzialmente vera. Si tratta, infatti, di un effetto del tutto eventuale e, comunque, di lunga e complessa attuazione.
La legge distingue tra funzioni “fondamentali” e funzioni “non fondamentali”. Le prime restano necessariamente alle province (finché non vengono abolite) e comprendono pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza; pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, costruzione e gestione delle strade provinciali con regolazione della circolazione stradale inerente; programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale ed eventuale gestione dell’edilizia, in accordo con i comuni; raccolta ed elaborazione dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali.
Per quanto riguarda tutte le decine di altre funzioni “non fondamentali”, l’articolo 15 della legge ripropone, con gli stessi problemi, la medesima idea della manovra a suo tempo avviata da Mario Monti e fallita. Si demanda a un accordo in Conferenza unificata tra Stato e Regioni l’individuazione di quali siano le funzioni provinciali (il Dpcm previsto da Monti nell’agosto del 2011, che aveva lo stesso scopo, non è mai venuto alla luce). Dopo di che, con specifiche leggi, Stato e Regioni, secondo le materie di rispettiva competenza, dovrebbero riassegnare le funzioni provinciali non fondamentali ad altri enti.
I nuovi soggetti competenti
Quali saranno poi i nuovi soggetti competenti? La “vulgata”, diffusa anche dal ministro Delrio, è che alle province subentreranno i comuni. Si tratterebbe certamente di una scelta scellerata, in quanto i comuni non sono ovviamente idonei a gestire funzioni per loro natura sovra-comunali.
Ma, in ogni caso, sempre l’articolo 15 della legge dispone in modo molto diverso e complesso. Infatti, richiama l’articolo 118 della Costituzione, che impone di attribuire le funzioni amministrative in applicazione del principio della “sussidiarietà verticale”, cioè in base all’adeguatezza e alla dimensione degli enti chiamati a svolgere le funzioni stesse. Si intuisce perfettamente, dunque, che funzioni sovra-comunali non possano considerarsi adeguate al livello comunale. Per l’appunto, l’articolo 15 subordina il ridisegno delle funzioni provinciali a una serie di criteri ai quali si dovranno attenere le leggi statali e regionali: l’individuazione per ogni funzione dell’ambito territoriale ottimale di esercizio; l’efficacia nello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei comuni; la sussistenza di riconosciute esigenze unitarie; l’adozione di forme di avvalimento e deleghe di esercizio mediante intesa o convenzione.
Dunque, non è affatto scontato che le funzioni provinciali vadano ai comuni. Laddove l’ambito ottimale ed esigenze unitarie emergano (e sarebbe la stragrande maggioranza dei casi), applicando l’articolo 118 della Costituzione, le leggi non potrebbero che lasciare le funzioni non fondamentali alle province, oppure assegnarle alle Regioni stesse; o, nello specifico caso delle politiche per il lavoro, costituire un nuovo sistema di gestione (resta sempre in piedi l’ipotesi della creazione di un’Agenzia nazionale o di agenzie regionali federate, quali nuovi titolari delle competenze in tema di lavoro).
Tempi lunghi e ben pochi risparmi..
Occorrono dunque accordi tra Stato e Regioni, leggi attuative e, ancora, specifici decreti che determineranno le risorse finanziarie, strumentali e di personale da trasferire di volta in volta.
Il processo, per altro solo abbozzato dalla legge, senza affrontare in profondità le conseguenze sul patto di stabilità e sull’assetto della normativa sulla finanza locale, si annuncia estremamente lungo, anche più lungo dell’iter di modifica della Costituzione, finalizzato ad abolire le province.
Infine, la questione dei risparmi. Né la legge, né le relazioni illustrativa e tecnica quantificano anche un solo centesimo di risparmio.
All’inizio, il ministro Delrio aveva dichiarato che non erano i risparmi a interessare, ma il riordino e la semplificazione, che, invece, non ci sono affatto.
Poi, si è lasciato affascinare da studi dell’Istituto Bruno Leoni, che quantificano i risparmi possibili in 2 miliardi e da ultimo afferma che il risparmio certo, discendente dall’abolizione degli organi di governo, sarebbe di 160 milioni.
Tutte cifre ipotetiche e casuali. In realtà, l’unica rilevazione realmente ufficiale è quella della Corte dei conti (inspiegabilmente ignorata da Delrio), secondo la quale i risparmi sono molto dubbi, mentre certi sono, anche se non quantificati, i costi di un simile stravolgimento.
Il risparmio sugli organi di governo, per altro, sarebbe di soli 35 milioni: a tanto, infatti, ammonterebbe l’onere per consiglieri, assessori e presidenti provinciali, per effetto delle riforme dell’estate del 2011, che avevano previsto la drastica riduzione del numero degli amministratori provinciali.