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Ariel Sharon: requiem per il signore della guerra

Come disse una volta Mao Zedong: “Non tutte le morti sono uguali, alcune sono leggere come piume, altre più pesanti del Monte Tai”. Frase di indiscutibile validità, che cozza contro il paradigma buonista e falso umanitarista imperante dalle nostre parti, secondo il quale, come ha notato di recente Scanzi proprio a proposito di Ariel Sharon, chi muore diventa sempre buono.

La morte di un personaggio influente sulla scena politica internazionale deve essere invece l’occasione di un bilancio sincero e accurato, direi spietato, del suo operato. Nel caso di Ariel Sharon, va detto senza mezzi termini che si è trattato di un criminale di guerra e contro l’umanità che ha allontanato di molti anni la possibilità concreta di una pace in Medio Oriente, provocando moltissime morti evitabili, di palestinesi ma anche di israeliani, e sofferenze indicibili per milioni di persone. La memoria di Sharon resterà indissolubilmente legata all’atroce massacro di Sabra e Shatila, a proposito del quale vi consiglio la visione del film a cartoni animati Un Valzer con Bashir, del regista israeliano Ari Folman. Ma anche di altri episodi criminali, come l’uccisione di 65 abitanti, fra i quali donne e bambini, del villaggio palestinese di Qibya, avvenuta il 14 ottobre 1953. O, come ricorda Alì Rashid sul manifesto di oggi, la campagna di odio lanciata da Sharon contro Rabin, a seguito della quale quest’ultimo fu assassinato. Ed altri episodi ancora, nel segno della proterva volontà di cancellare un intero popolo.

Certamente va operato uno sforzo per storicizzare il personaggio e le sue gesta. Scrive il direttore di Haaretz, Gideon Lévy, a conclusione di un articolato intervento in memoria di Sharon apparso su Internazionale di questa settimana: “Sharon ha dimostrato di essere un leader capace di prendere decisioni fondamentali e di lasciare il suo segno nella storia”, ma aggiunge: “Purtroppo è stato lui a mettere Israele nella posizione difficile in cui si trova tuttora”.  Lo storico israeliano Benny Morris, in un’intervista concessa a Repubblica di ieri, ha affermato che probabilmente Sharon aveva capito, dopo la seconda Intifada, che lui stesso aveva contribuito a scatenare con la famigerata “passeggiata” sulla Spianata delle Moschee, che “non si poteva continuare a dominare un altro popolo e che questo era un male anche per Israele”. Difficile comprovare la veridicità di quest’ultima affermazione e comunque, com’è noto, la storia non si fa con i sé. Fatto incontrovertibile, il segno di Sharon sulla storia di Israele e del mondo è stato assolutamente negativo.

Al di là delle illazioni di ordine politico, la considerazione del contesto storico in cui Ariel Sharon ha operato non può certo costituire una scusante per i crimini di cui si è reso colpevole.

Da Norimberga in poi, la comunità internazionale ha cercato, sia pure in modo ancora imperfetto, parziale e spesso tendenzioso, di sanzionare i crimini più gravi, come quelli di genocidio, di guerra e contro l’umanità. Nessuno Stato, nessun governante, nessun comandante militare deve potersi sottrarre alla sanzione dei suoi crimini. Neanche Israele. Negando tale possibilità, con la decisione assunta il 3 aprile 2012, basata su argomenti di ordine esclusivamente formale, il Procuratore presso la Corte penale internazionale ha dichiarato l’inutilità di tale istituzione, gettando nella pattumiera anni di sforzi volti a raggiungere un’effettiva giustizia internazionale. Non è del resto un caso che tale Corte si occupi attualmente solo di casi riguardanti governi ed altri soggetti africani, dimostrando un’inconfutabile vocazione neocoloniale che la rende giustamente invisa a gran parte del mondo.

La  strada del rispetto del diritto internazionale non è solo quella più conforme alle regole e quella più giusta, ma si rivela in ultima analisi la unica percorribile per raggiungere finalmente la pace in Medio Oriente e nel mondo. Per questo non deve essere consentito oggi di celebrare chi della violazione di tale diritto ha fatto il tratto caratterizzante della propria esistenza e carriera politica.