Il Movimento 5 Stelle, ieri, ha votato due volte: contro il reato di clandestinità e, per la prima volta, contro Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Il referendum online di ieri è discutibile sotto vari punti di vista. Non c’è stato preavviso e gli iscritti hanno dovuto scegliere in poche ore. Alcuni parlamentari, tra cui il senatore Buccarella (colui che aveva presentato l’emendamento contro il reato di clandestinità assieme a Cioffi), hanno lamentato la poca informazione fornita dal blog. L’esito delle consultazioni online rimane poi gestito interamente da Casaleggio: il liquid feedback, di cui si parla da mesi, garantirebbe trasparenza totale, ma ancora non si vede (e alle imminenti europarlamentarie sarebbe fondamentale).
A fronte di tali perplessità, il Movimento 5 Stelle ha salvato la “forma”, che nel suo caso è anche sostanza: Buccarella e Cioffi avevano sbagliato nel metodo, più che nel merito. Se il parlamentare è solo un “cittadino portavoce”, non può arrogarsi il diritto di scegliere senza consultare gli elettori. In questo modo, attraverso la consultazione si è salvato un caposaldo del M5S: “E’ la Rete che decide”, e dunque il parlamentare non fa che eseguire l’ordine (che arriva dagli elettori, non dai due “leader”). Anche qui ci sarebbe da discutere. Grillo e Casaleggio sanno bene che la politica vive di decisioni da prendere sul momento. La politica, persino in Italia, ha tempi più rapidi del blog di Grillo: i due senatori “dissidenti” non solo non sbagliarono, ma seppero interpretare il presente con una lungimiranza che ovviamente il governo non ebbe. E seppero codificare il desiderio della maggioranza degli elettori, come attestato dal voto di ieri.
Un voto che continua a riguardare troppe poche persone: una forza politica che aveva a febbraio quasi 9 milioni di voti non può dipendere dalla scelta (giusta o sbagliata che sia) di 25mila militanti della prima ora. I 5 Stelle dicono che loro, almeno, una minima votazione la fanno, mentre il Pd non consulta certo la base quando deve votare in Parlamento su F35 e slot machine: vero, ma essere meglio degli altri non basta (spesso non ci vuole molto) ed è ancora un po’ presto per parlare di “democrazia diretta” compiuta. Grillo e Casaleggio scrissero un post livoroso, attaccato da quasi tutti e difeso teneramente da due yesman e tre o quattro troll. I motivi del loro astio erano molteplici: il non aver rispettato il protocollo e il temere che quella decisione “di sinistra” potesse erodere il consenso tra i delusi di destra. Grillo, guardando i sondaggi, si preoccupò. E Casaleggio, che certo di sinistra non è, temette che il “suo” movimento subisse svolte ideologiche indesiderate.
Il risultato di ieri costituisce un successo anche per loro: non solo hanno fatto sì che le regole interne fossero rispettate, ma hanno anche dimostrato che “uno vale uno”, al punto tale che i due nomi più rilevanti di una forza politica vengano sbugiardati dal loro elettorato (di più: dalla base storica, fino ad oggi duropurista). Casaleggio, da ieri, potrà dire: “Visto? Il voto è libero e io ne prendo solo atto”. Non è poco. La giornata di ieri dice però anche un’altra cosa: Grillo, e più ancora Casaleggio, non sempre – e non necessariamente – rappresentano la maggioranza degli elettori M5S. Sulla cacciata di Mastrangeli e Gambaro avevano vinto. Anche la scelta di Rodotà, per quanto non “grillino”, era stata accettata da entrambi con piacere. Ora il no al reato di clandestinità è anche un no (circoscritto, ma innegabile) a Grillo e Casaleggio. Non tanto a loro, quanto al loro dominio. Alla loro onnipresenza. Alla loro supposta pretesa di ipercontrollo (il controllo ci sta, l’iper no). Il voto di ieri certifica l’eterogeneità degli elettori 5 Stelle, a maggioranza palese di sinistra, ed esemplifica la discrasia tra “gruppo dirigente” e base elettorale. Grillo e Casaleggio, non si sa quanto serenamente, prima o poi dovranno prenderne atto.
Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2014