Cultura

Springsteen, il nuovo album “High hopes”: critiche e (presunta) empasse creativa

Quattro delle dodici canzoni del disco sono rivisitazioni di materiale già noto e una è la cover di un oscuro gruppo australiano, The Saints. I pezzi originali, invece, sono recuperati dalle registrazioni dell’ultimo decennio o persino prima

“I fan devi sorprenderli, non spaventarli”, ha detto Bruce Springsteen al suo produttore Ron Aniello mentre lavoravano a High Hopes, il nuovo album del Boss in uscita il 14 gennaio. Anche se stavolta il termine “nuovo” potrebbe non essere il più adatto. Strano, interlocutorio disco questo, che ha fatto storcere la bocca a molti una volta che si è sparsa la voce che quattro delle sue dodici canzoni sarebbero state rivisitazioni di materiale già noto e una (“Just Like Fire Would”), la cover di un oscuro gruppo australiano, The Saints. Il materiale originale, poi, recuperato dalle registrazioni dell’ultimo decennio o persino prima, ha rinnovato le critiche dei fan più agguerriti (curioso che siano sempre gli adoratori dell’icona Springsteen i suoi più accaniti detrattori) su una presunta empasse creativa e su un contratto con la Sony che lo costringerebbe a pubblicare molto più che in passato.

In effetti dal 2002 ad oggi Springsteen ha pubblicato sette album da studio, tre dal vivo, due raccolte e le edizioni speciali con montagne di inediti per celebrare due dei suoi dischi storici: Born To Run e Darkness On The Edge Of Town; non è poco per un artista che nei precedenti trent’anni di carriera si era limitato ad una quindicina di pubblicazioni. Dal canto suo, Bruce afferma di sentirsi molto più sereno che in passato sulla pubblicazione del suo materiale ed è cosa nota che continui a scrivere un’infinità di canzoni che poi non vedono la luce. Quindi High Hopes sarebbe un disco di scarto nato per adempiere a doveri contrattuali o per avere materiale nuovo da vendere mentre si parte per i tour di Sudafrica e Australia? Forse è anche questo, ma sarebbe davvero ingeneroso non concedere il beneficio di un ascolto sincero ad un artista che in passato ha così raramente tradito le attese.

Nelle note scritte di suo pugno, Springsteen afferma che questi brani sono tra i suoi preferiti degli ultimi dieci anni e che, per vari motivi, non avevano trovato spazio sui dischi mentre avrebbero meritato la pubblicazione. Difficile dargli torto quando si ascoltano “Harry’s Place” e “Down in the Hole”, le due canzoni che per il rotto della cuffia non trovarono posto su The Rising, il capolavoro post-11 settembre uscito nel 2002, o quando ci si imbatte nel delicato valzer di “Hunter of Invisible Game” o la toccante “The Wall”, che risale addirittura alla fine degli anni novanta e fu ispirata da una visita al muro del Vietnam Veterans Memorial dove sono inscritti i nomi dei caduti, tra cui quello di Walter Chicon, cantante di una band del New Jersey, morto in Vietnam come molti ragazzi della generazione di Bruce: “Ora gli uomini che ti hanno messo qui mangiano con le loro famiglie in ricche sale da pranzo/E scuse e perdono non possono trovare spazio su questo muro”.

In questi versi c’è la stessa rabbia di “Death to my Hometown” e di altri brani di Wrecking Ball, nei confronti di un potere politico ed economico criminale e ingordo (“Mandiamo all’inferno/Gli avidi ladri che hanno divorato tutta la carne/I cui crimini sono rimasti impuniti/E che camminano ancora come uomini liberi…”). Un filo rosso che forse è la chiave per interpretare l’album come una sorta di chiusura del lavoro svolto nel decennio passato. Un percorso a ritroso lungo la strada fatta per trovare un suono adatto a questi anni, un suono che ha raccolto la tradizione del folk e delle canzoni di protesta per raccontare prima lo shock dell’undici settembre, poi la guerra in Iraq, la speranza per l’elezione di Obama e infine la crisi economica, ma anche un suono nuovo che senza rinunciare alla classicità rock, marchio di fabbrica della sua E Street Band, ha trovato nuove idee e nuovi percorsi, che culminano con la persino troppo ingombrante presenza di Tom Morello su questo disco.

Il dirompente chitarrista del gruppo rap metal Rage Against The Machine sembra essere lontano anni luce dalla musica del Boss e la sua presenza rischia di provocare quello che Bruce dichiara di voler evitare: “spaventare i fan”, ma l’amicizia tra i due artisti è ormai nota da anni, così come la stima di Springsteen nei suoi confronti: “E’ uno di quei rari chitarristi in grado di creare un proprio mondo, come The Edge degli U2, Pete Townshend degli Who o Johnny Marr degli Smiths. La E Street Band è una grande casa, ma quando Tom suona con noi crea un’altra stanza”, ha detto il Boss a Rolling Stone. Un disco che comincia con le piccole ma “grandi speranze” per una vita migliore della canzone che dà il titolo all’album (cover di un misconosciuto gruppo dei primi anni novanta, The Havalinas), mentre in chiusura il mantra onirico “Dream Baby Dream” (vecchio brano del duo electropunk Suicide), invita a tenere accesa la fiamma, asciugarsi le lacrime e continuare a sognare. Ma tra questi due estremi troviamo come sempre l’amore, la morte, la guerra, le ingiustizie, la vita vissuta. E grande musica. Tra questi estremi insomma, c’è un disco di Bruce Springsteen.