L’Italia è tra i primi quattro Paesi europei a fornire sistemi di sostegno pubblico per incoraggiare e informare gli studenti sulle opportunità di studio e formazione all’estero. Il problema è che molti ragazzi non tornano a casa, o almeno provano a rimanere all’estero. È la triste conclusione alla quale si arriva incrociando i risultati di due recenti studi della Commissione europea, uno sulla valutazione della mobilità dei giovani in Europa e l’altro sul rapporto formazione-lavoro.
A fare il resto ci pensano gli ultimi dati Istat: 39.545 gli italiani emigrati e residenti all’estero nel 2010 (senza contare tutti quelli che hanno mantenuto la residenza in Italia). Secondo il “Quadro di valutazione della mobilità” della Commissione europea, l’Italia – insieme a Germania, Belgio e Spagna – è tra i Paesi Ue che meglio informa e sostiene i propri ragazzi a studiare e formarsi all’estero. Lo score italiano è alto soprattutto per due delle cinque voci dello studio, “informazione e orientamento sulle opportunità di mobilità e “sostegno agli studenti provenienti da contesti svantaggiati”. Per quanto riguarda gli altri capitoli (portabilità dei sussidi agli studenti, conoscenza delle lingue straniere e riconoscimento degli studi all’estero) niente virtuosismi, ma nel contesto europeo la posizione dell’Italia è tutto sommato buona.
Bene. Se non fosse, però, per i risultati di un altro studio, “Education to Employment” condotto dalla società di consulenza McKinsey sempre per conto della Commissione europea. Sono stati intervistati 5.300 giovani, 2.600 datori di lavoro e 700 realtà del mondo dell’istruzione provenienti da otto paesi europei – Francia, Germania, Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito – nei quali si concentra quasi il 75% della disoccupazione giovanile dei 28 Paesi Ue. Il risultato è sconcertante: la scarsa comunicazione tra mondo dell’istruzione e impresa e la carenza di informazioni dirette a chi si deve inserire nel mondo del lavoro condanna i giovani italiani alla disoccupazione.
Non è un caso che Eurostat, l’ufficio statistiche dell’Ue, riporti la disoccupazione giovanile in Italia nel novembre 2013 alla quota record di 41,6 per cento. Il paradosso è che il 47% degli imprenditori intervistati dichiara di non trovare le professionalità di cui ha bisogno mentre il 72% degli enti di formazione ritiene che i giovani abbiano le competenze giuste al termine del percorso di istruzione. Un divario di percezione spiegabile secondo gli esperti solo in un modo: il mondo del lavoro e quello dell’istruzione non comunicano adeguatamente tra di loro.
E qui si aggiunge un’altra beffa: secondo il Consiglio europeo della ricerca (Cer) i ricercatori italiani sono al secondo posto in Europa – dopo i tedeschi – nel primo bando per borse di studio di consolidamento che ammontano a 575 milioni di euro, per la precisione 46 italiani su 312 totali. I progetti finanziati sono molto diversi ma tutti di alta qualità, si va dalla previsione delle eruzioni vulcaniche grazie ad un orologio geochimico all’analisi degli effetti della materia oscura sulla teoria gravitazionale, passando per l’esplorazione dei fattori genetici e ambientali nei circuiti cerebrali a livello embrionale. Guarda caso, invece, l’Italia non è tra i Paesi che accolgono questi ricercatori per i loro studi: Regno Unito (62), Germania (43) e Francia (42). Sempre secondo l’Istat, dei laureati italiani nel 2007 (oggi più o meno trentenni) ben 6.275 su 294.749 vivono all’estero (sempre senza considerare i residenti in Italia).
Insomma, alla luce di tutti questi dati, si arriva alla conclusione che l’Italia incoraggia i propri studenti a studiare e formarsi all’estero ma fa molto poco per incentivarne l’inserimento nel mercato del lavoro interno. Ecco che per il gruppo Giovani Italiani a Bruxelles, che ha organizzato un incontro pubblico al Parlamento europeo a fine gennaio, “per tanti giovani alla ricerca di lavoro, partire sta diventando un obbligo, non più una scelta. Purtroppo questa mobilità europea, che dovrebbe favorire l’arricchimento personale, formativo e professionale è un viaggio di sola andata”. E poi li chiamano “cervelli in fuga”.
Twitter @AlessioPisano