Dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il “Porcellum”, sarà la volta buona per la riforma elettorale? La discussione parte dalle tre proposte avanzate dal segretario del Pd Matteo Renzi: un ritorno alla legge Mattarella, corretta in senso maggioritario, il sistema spagnolo, e il “sindaco d’Italia”. Strano modo di procedere: come ha detto ieri il politologo Giovanni Sartori, “s’è mai visto che uno non ha una sua proposta e non la sa argomentare? Gli vanno bene come se fossero interscambiabili? Boh”.
Nella sua lettera agli altri partiti, Renzi ha indicato tre criteri: “Una legge elettorale che sia maggioritaria, che garantisca la stabilità e l’alternanza, che eviti il rischio di nuove larghe intese”. Forse troppo poco, forse troppo: questi requisiti scaricano sulla legge elettorale problemi di funzionamento del sistema politico che nessun sistema di conversione dei voti in seggi può risolvere. Una legge elettorale è un meccanismo tecnico per far funzionare la rappresentanza: può essere buono o cattivo (la legge Calderoli del 2005 era pessima) ma non è la bacchetta magica per risolvere i problemi del modo di fare politica di un Paese, del suo tasso di corruzione, del trasformismo, o della stabilità. E’ ingenuo pensare che il garantire una maggioranza al “vincitore” delle elezioni offra la certezza di cinque anni di governo senza difficoltà, basti pensare a cosa è successo alla larghissima maggioranza berlusconiana dopo le elezioni del 2008, con l’uscita di Fini.
Il secondo problema è appunto il carattere “maggioritario” della legge: come si sa, nel panorama mondiale dominano largamente le formule proporzionali perché, come scrisse John Stuart Mill, “Il primo principio della democrazia è la rappresentanza in proporzione ai numeri [dei voti]”. Ogni strappo a questo principio è problematico perché la nostra Costituzione (art. 48) è basata sul principio fondamentale di eguaglianza del voto, come ha ricordato la Consulta nelle motivazioni della sentenza con cui ha cancellato appunto il premio di maggioranza introdotto dalla legge del 2005. Infatti, la Corte scrive che l’art. 48, “pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi”.
Questo significa, in pratica, escludere a priori almeno una delle proposte di Renzi, quella di riformare la legge Mattarella assegnando il 15% dei seggi come premio di maggioranza al partito vincitore nei 475 collegi uninominali. Il motivo è semplice: l’assegnazione di questi seggi sulla base del sistema “il primo arrivato viene eletto” è già un meccanismo distorsivo, aggiungervi un ulteriore premio creerebbe una formula ipermaggioritaria incompatibile con i principi costituzionali.
Facciamo un esempio concreto: nelle elezioni del 1996, l’Ulivo ottenne il 38,5% dei voti ma il 48% dei seggi mentre Berlusconi, con il 40% dei voti, ottenne il 35,6% dei seggi. Vinse chi aveva avuto meno voti. Se fosse stata in vigore l’ipotesi Renzi, l’Ulivo avrebbe ottenuto, oltre ai suoi 228 seggi e ai 29 di liste minori collegate, anche altri 95 seggi, per un totale di 352 deputati su 630. Peggio della legge Calderoli del 2005, censurata dalla Corte perché assegnava 340 seggi alla coalizione vincitrice. Inutile aggiungere che nel 2001 il meccanismo funzionò in senso opposto: centrodestra e centrosinistra finirono quasi alla pari (45,5% il primo, 43,1% il secondo) ma Berlusconi ottenne 282 seggi mentre Rutelli solo 183.
Ora vediamo il cosiddetto “sistema spagnolo”. In realtà, la proposta del segretario del Pd di spagnolo ha ben poco, perché propone di dividere il territorio italiano in 118 circoscrizioni (in Spagna sono 52) e perché propone, anche in questo caso, un premio di maggioranza del 15%, che in Spagna non esiste. Le circoscrizioni eleggerebbero quattro o cinque deputati, per un totale presumibilmente di 535 membri della Camera, mentre gli altri 95 seggi sarebbero assegnati al partito o coalizione vincitrice.
Anche in questo caso, però, il premio di maggioranza resterebbe problematico dal punto di vista costituzionale. Infatti, nel testo Renzi non è fissata una soglia per far scattare il premio, il che riproduce lo stesso difetto della legge Calderoli. La Corte costituzionale, su questo punto, ha osservato: “Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza (…) introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto” (corsivo mio NdR).
Di nuovo, facciamo un esempio: nelle elezioni del 25 febbraio 2013 il Movimento 5 Stelle ha ottenuto il 25,5% dei voti, il Pd il 25,4% e il Popolo della Libertà il 21,5%. Poiché un meccanismo basato su circoscrizioni come quelle ipotizzate, e senza recupero dei resti a livello nazionale, avvantaggia i partiti maggiori, è facile immaginare che questi tre partiti, se fosse stata in vigore la proposta di Renzi, avrebbero ottenuto un numero sostanzialmente uguale di deputati. Uno dei tre, pur rappresentando solo un quarto degli elettori e per ragioni assolutamente casuali, avrebbe però avuto una manciata di seggi in più, sufficiente a far scattare il premio di maggioranza di 95 seggi. L’arbitrarietà di un meccanismo di questo genere difficilmente sfuggirebbe alla censura della Corte, come si è detto per l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per ottenere il premio di maggioranza.
Conclusione: Renzi è partito col piede sbagliato e, come ha osservato anche il deputato del Pd Miguel Gotor, rimane in campo solo la tradizionale proposta del Pd del doppio turno di votazioni. Ballottaggi fra i due candidati che hanno ottenuto più voti in un collegio senza superare il 50%, senza premi di maggioranza o liste con le preferenze. Ma su questa ipotesi il parlamento attuale riuscirà a trovare un accordo? Forza Italia non sarà certamente d’accordo, la vera incognita è l’M5S.
Fabrizio Tonello
Docente di Scienza politica, Università di Padova
Politica - 15 Gennaio 2014
Legge elettorale: Renzi ne sbaglia due su tre
Dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il “Porcellum”, sarà la volta buona per la riforma elettorale? La discussione parte dalle tre proposte avanzate dal segretario del Pd Matteo Renzi: un ritorno alla legge Mattarella, corretta in senso maggioritario, il sistema spagnolo, e il “sindaco d’Italia”. Strano modo di procedere: come ha detto ieri il politologo Giovanni Sartori, “s’è mai visto che uno non ha una sua proposta e non la sa argomentare? Gli vanno bene come se fossero interscambiabili? Boh”.
Nella sua lettera agli altri partiti, Renzi ha indicato tre criteri: “Una legge elettorale che sia maggioritaria, che garantisca la stabilità e l’alternanza, che eviti il rischio di nuove larghe intese”. Forse troppo poco, forse troppo: questi requisiti scaricano sulla legge elettorale problemi di funzionamento del sistema politico che nessun sistema di conversione dei voti in seggi può risolvere. Una legge elettorale è un meccanismo tecnico per far funzionare la rappresentanza: può essere buono o cattivo (la legge Calderoli del 2005 era pessima) ma non è la bacchetta magica per risolvere i problemi del modo di fare politica di un Paese, del suo tasso di corruzione, del trasformismo, o della stabilità. E’ ingenuo pensare che il garantire una maggioranza al “vincitore” delle elezioni offra la certezza di cinque anni di governo senza difficoltà, basti pensare a cosa è successo alla larghissima maggioranza berlusconiana dopo le elezioni del 2008, con l’uscita di Fini.
Il secondo problema è appunto il carattere “maggioritario” della legge: come si sa, nel panorama mondiale dominano largamente le formule proporzionali perché, come scrisse John Stuart Mill, “Il primo principio della democrazia è la rappresentanza in proporzione ai numeri [dei voti]”. Ogni strappo a questo principio è problematico perché la nostra Costituzione (art. 48) è basata sul principio fondamentale di eguaglianza del voto, come ha ricordato la Consulta nelle motivazioni della sentenza con cui ha cancellato appunto il premio di maggioranza introdotto dalla legge del 2005. Infatti, la Corte scrive che l’art. 48, “pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi”.
Questo significa, in pratica, escludere a priori almeno una delle proposte di Renzi, quella di riformare la legge Mattarella assegnando il 15% dei seggi come premio di maggioranza al partito vincitore nei 475 collegi uninominali. Il motivo è semplice: l’assegnazione di questi seggi sulla base del sistema “il primo arrivato viene eletto” è già un meccanismo distorsivo, aggiungervi un ulteriore premio creerebbe una formula ipermaggioritaria incompatibile con i principi costituzionali.
Facciamo un esempio concreto: nelle elezioni del 1996, l’Ulivo ottenne il 38,5% dei voti ma il 48% dei seggi mentre Berlusconi, con il 40% dei voti, ottenne il 35,6% dei seggi. Vinse chi aveva avuto meno voti. Se fosse stata in vigore l’ipotesi Renzi, l’Ulivo avrebbe ottenuto, oltre ai suoi 228 seggi e ai 29 di liste minori collegate, anche altri 95 seggi, per un totale di 352 deputati su 630. Peggio della legge Calderoli del 2005, censurata dalla Corte perché assegnava 340 seggi alla coalizione vincitrice. Inutile aggiungere che nel 2001 il meccanismo funzionò in senso opposto: centrodestra e centrosinistra finirono quasi alla pari (45,5% il primo, 43,1% il secondo) ma Berlusconi ottenne 282 seggi mentre Rutelli solo 183.
Ora vediamo il cosiddetto “sistema spagnolo”. In realtà, la proposta del segretario del Pd di spagnolo ha ben poco, perché propone di dividere il territorio italiano in 118 circoscrizioni (in Spagna sono 52) e perché propone, anche in questo caso, un premio di maggioranza del 15%, che in Spagna non esiste. Le circoscrizioni eleggerebbero quattro o cinque deputati, per un totale presumibilmente di 535 membri della Camera, mentre gli altri 95 seggi sarebbero assegnati al partito o coalizione vincitrice.
Anche in questo caso, però, il premio di maggioranza resterebbe problematico dal punto di vista costituzionale. Infatti, nel testo Renzi non è fissata una soglia per far scattare il premio, il che riproduce lo stesso difetto della legge Calderoli. La Corte costituzionale, su questo punto, ha osservato: “Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza (…) introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto” (corsivo mio NdR).
Di nuovo, facciamo un esempio: nelle elezioni del 25 febbraio 2013 il Movimento 5 Stelle ha ottenuto il 25,5% dei voti, il Pd il 25,4% e il Popolo della Libertà il 21,5%. Poiché un meccanismo basato su circoscrizioni come quelle ipotizzate, e senza recupero dei resti a livello nazionale, avvantaggia i partiti maggiori, è facile immaginare che questi tre partiti, se fosse stata in vigore la proposta di Renzi, avrebbero ottenuto un numero sostanzialmente uguale di deputati. Uno dei tre, pur rappresentando solo un quarto degli elettori e per ragioni assolutamente casuali, avrebbe però avuto una manciata di seggi in più, sufficiente a far scattare il premio di maggioranza di 95 seggi. L’arbitrarietà di un meccanismo di questo genere difficilmente sfuggirebbe alla censura della Corte, come si è detto per l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per ottenere il premio di maggioranza.
Conclusione: Renzi è partito col piede sbagliato e, come ha osservato anche il deputato del Pd Miguel Gotor, rimane in campo solo la tradizionale proposta del Pd del doppio turno di votazioni. Ballottaggi fra i due candidati che hanno ottenuto più voti in un collegio senza superare il 50%, senza premi di maggioranza o liste con le preferenze. Ma su questa ipotesi il parlamento attuale riuscirà a trovare un accordo? Forza Italia non sarà certamente d’accordo, la vera incognita è l’M5S.
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Milano, 17 mar. (Adnkronos Salute) - Bergamo, 18 marzo 2020: una lunga colonna di camion militari sfila nella notte. Sono una decina in una città spettrale, le strade svuotate dal lockdown decretato ormai in tutta Italia per provare ad arginare i contagi. A bordo di ciascun veicolo ci sono le bare delle vittime di un virus prima di allora sconosciuto, Sars-CoV-2, in uscita dal Cimitero monumentale.
Quell'immagine - dalla città divenuta uno degli epicentri della prima, tragica ondata di Covid - farà il giro del mondo diventando uno dei simboli iconici della pandemia. Il convoglio imboccava la circonvallazione direzione autostrada, per raggiungere le città italiane che in quei giorni drammatici accettarono di accogliere i defunti destinati alla cremazione. Gli impianti orobici non bastavano più, i morti erano troppi. Sono passati 5 anni da quegli scatti che hanno sconvolto l'Italia, un anniversario tondo che si celebrerà domani. Perché il 18 marzo, il giorno delle bare di Bergamo, è diventato la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus.
La ricorrenza, istituita il 17 marzo 2021, verrà onorata anche quest'anno. I vescovi della regione hanno annunciato che "le campane di tutti i campanili della Lombardia" suoneranno "a lutto alle 12 di martedì 18 marzo" per "invitare al ricordo, alla preghiera e alla speranza". "A 5 anni dalla fase più acuta della pandemia continuiamo a pregare e a invitare a pregare per i morti e per le famiglie", e "perché tutti possiamo trovare buone ragioni per superare la sofferenza senza dimenticare la lezione di quella tragedia". A Bergamo il punto di partenza delle celebrazioni previste per domani sarà sempre lo stesso: il Cimitero Monumentale, la chiesa di Ognissanti. Si torna dove partirono i camion, per non dimenticare. Esattamente 2 mesi fa, il Comune si era ritrovato a dover precisare numeri e destinazioni di quei veicoli militari con il loro triste carico, ferita mai chiusa, per sgombrare il campo da qualunque eventuale revisione storica. I camion che quel 18 marzo 2020 partirono dal cimitero di Bergamo furono 8 "con 73 persone, divisi in tre carovane: una verso Bologna con 34 defunti, una verso Modena con 31 defunti e una a Varese con 8 defunti".
E la cerimonia dei 5 anni, alla quale sarà presente il ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli, sarà ispirata proprio al tema della memoria e a quello della 'scoperta'. La memoria, ha spiegato nei giorni scorsi l'amministrazione comunale di Bergamo, "come atto necessario per onorare e rispettare chi non c'è più e quanto vissuto". La scoperta "come necessità di rielaborare, in una dimensione di comunità la più ampia possibile, l'esperienza collettiva e individuale che il Covid ha rappresentato".
Quest'anno è stato progettato un percorso che attraversa "tre luoghi particolarmente significativi per la città": oltre al Cimitero monumentale, Palazzo Frizzoni che ospiterà il racconto dei cittadini con le testimonianze raccolte in un podcast e il Bosco della Memoria (Parco della Trucca) che esalterà "le parole delle giovani generazioni attraverso un'azione di memoria". La Chiesa di Ognissanti sarà svuotata dai banchi "per rievocare la stessa situazione che nel 2020 la vide trasformata in una camera mortuaria". Installazioni, mostre fotografiche, momenti di ascolto e partecipazione attiva, sono le iniziative scelte per ricordare. Perché la memoria, come evidenziato nella presentazione della Giornata, "è la base per ricostruire".
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Vogliamo il pilastro europeo dell'Alleanza atlantica e non lo delegheremo alla Francia e alla Gran Bretagna". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo. "Per avere i granai pieni -ha aggiunto- bisogna avere gli arsenali pieni, la difesa è la premessa della libertà e della democrazia".
Bruxelles, 18 mar. - (Adnkronos) - Le sedici aziende dell’Alleanza “Value of Beauty”, lanciata a febbraio 2024, hanno presentato a Bruxelles uno studio commissionato a Oxford Economics sull’impatto socioeconomico del settore. Il Gruppo L’Oréal, Kiko Milano, Beiersdorf, Iff, e altri grandi marchi dell’industria vogliono inserirsi nello spiraglio aperto dalla Commissione europea per favorire la semplificazione normativa in vari ambiti, e per chiedere un dialogo strategico sul futuro del settore, come già successo per agricoltura e automotive.
Il settore guarda con attenzione alle proposte su una legge europea vincolante per le biotecnologie e alla strategia per la bioeconomia, che la Commissione si impegna a presentare entro la fine dell’anno. Ma guarda con attenzione anche agli sviluppi nelle relazioni commerciali in Occidente alla luce della recente entrata in vigore dei dazi di Washington sull’import dall’Unione europea.
“Cinque delle sette più grandi aziende del settore hanno la loro sede nell’Ue”, ha sottolineato l’amministratore delegato del Gruppo L’Oréal, Nicolas Hieronimus.
A Bruxelles i sedici membri dell’Alleanza chiedono politiche per la produzione sostenibile di ingredienti e la formazione di personale per sbloccare il potenziale del settore. Un aspetto legato, secondo l’amministratore delegato di Kiko Milano, Simone Dominici, all’impatto positivo che la cura del corpo e dell’estetica ha sull’autostima e sulla salute mentale dei consumatori. Aspetti non trascurati dallo studio dell’Oxford Economics presentato all’ombra dei palazzi delle istituzioni europee. Il rapporto mostra che la spesa dei consumatori nell’Ue per i prodotti di bellezza e cura della persona ha superato i 180 miliardi di euro e dato lavoro a oltre tre milioni di persone, un numero che supera il totale della forza lavoro presente in 13 Stati membri dell’Ue. Troppi anche gli oneri per l'industria della cosmetica che rendono necessaria una revisione della direttiva sulle acque reflue. Forte dei 496 milioni di euro generati ogni giorno e dei 3,2 milioni di posti di lavoro, la cordata dei grandi nomi dell’industria della bellezza chiede che tutti i settori che contribuiscono ai microinquinanti nelle acque siano ritenuti responsabili, in linea con il principio “chi inquina paga”.
I riflettori dell’Alleanza, che guarda anche agli interessi di tutti gli attori della filiera - dagli agricoltori ai vetrai, importanti nella catena del valore quanto le case di fragranze - sono rivolti in primis sull’attesa revisione del regolamento Reach (Regulation on the registration, evaluation, authorisation and restriction of chemicals), che regolamenta le sostanze chimiche autorizzate e soggette a restrizione nell’Unione europea. L’Alleanza chiede che a questa iniziativa, annunciata nel 2020 come parte del pacchetto sul Green deal, si aggiunga anche una revisione del regolamento sui prodotti cosmetici.
L’appello ha come obiettivo la riduzione degli oneri amministrativi e lo stimolo all'innovazione, senza sacrificare l’approccio basato sul rischio per la salute e la responsabilità per la tutela dell’ambiente. Trasmette ottimismo l’iniziativa della Commissione di considerare delle esenzioni per alcune imprese colpite dalla direttiva della diligenza dovuta che imponeva oneri considerati sproporzionati alle piccole e medie imprese, la colonna portante del settore.
“Vogliamo impiegare più tempo alla sostenibilità, piuttosto che alla rendicontazione amministrativa”, è stato l’appello degli amministratori delegati durante la conferenza stampa che ha preceduto gli incontri istituzionali al Parlamento europeo, tra cui quello con la presidente dell’istituzione, Roberta Metsola. Lo studio presentato dimostra che una parte consistente della cura per la sostenibilità ambientale passa anche dalla cosmetica. L’Oréal ha già annunciato che entro il 2030 il 100% della plastica utilizzata nelle confezioni sarà ottenuta da fonti riciclate o bio-based.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Mandare soldati in Ucraina mentre ci sono i bombardamenti è una pazzia e l'Italia non farà questa scelta". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Gli inglesi sono usciti dall'Europa e adesso ci convocano una volta a settimana, facessero domanda per rientrare nell'Unione europea". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Dei Servizi segreti non si parla nell'Autogrill, si parla nel Copasir, io all'Autogrill ci vado a comprare il panino". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Da oggi sono autorizzato a dire che la Meloni non smentisce l'utilizzo di intercettazioni preventive nei confronti di un giornalista che attacca il Governo. È una cosa enorme, che ha a che fare con la dignità delle Istituzioni. Se non vi rendete conto che su questa cosa si gioca il futuro della libertà, allora sappiate che c'è qualcuno che lascia agli atti questa frase, perchè quando intercetteranno voi, in modo illegittimo, con i trojan illegali, saremo comunque dalla vostra parte per difendere il vostro diritto di cittadini, mentre voi oggi vi state voltando dal'altra parte". Lo ha affermato Matteo Renzi nella sua dichiarazione di voto sulle risoluzioni sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
"Giorgia Meloni va al Consiglio europeo senza una linea, senza sapere da che parte stare, senza aver avuto il coraggio di rispondere a quella frase che lei stessa aveva detto: 'come diceva Pericle la felicità consiste nella libertà e la libertà dipende dal coraggio'. Se la felicità e la libertà dipendono dal coraggio, Giorgia Meloni -ha concluso l'ex premier- non è felice, non è libera".