L’ultimo round della crisi politica thailandese è iniziato lunedì, con una mega occupazione di Bangkok da parte di manifestanti antigovernativi. Lo sfondo alle proteste sembra essere una lotta di potere alla luce di una successione al trono imminente ma incerta, aggravata da frammentazioni interne all’aristocrazia e alle forze armate, e dall’inaspettato successo elettorale di Thaksin Shinawatra, l’ex premier, adesso in esilio, la cui dinastia politica si protrae con la guida al governo della sorella Yingluck.
Proprio attorno alla figura di Thaksin la società thailandese è polarizzata da nove anni. In piazza sono scese la borghesia bangkokiana e parte della popolazione di alcune province meridionali, che chiedono di cancellare quasi 15 anni di storia politica per un ritorno a una idealizzata Thailandia pre-Thaksin, dove l’autorità morale del re Bhumibol Adulyadej era indiscussa, e dove il Paese – dicono i manifestanti – era libero dalla corruzione. Dall’altra parte della barricata l’elettorato delle province, costituito da una comunità principalmente agraria sempre più economicamente stabile e ansiosa di fare valere la propria voce politica.
Più che da un’agenda politica, l’affluenza all’occupazione di Bangkok appare motivata dall’urgenza morale di punire gli Shinawatra, e da quella – politica – di escluderli dall’arena politica nazionale. I manifestanti invocano una fantomatica riforma finalizzata a rendere la classe politica meno corrotta, e chiedono il rinvio indeterminato delle prossime elezioni, previste per il 2 febbraio. L’operazione sembra dunque consistere nel privare la maggioranza elettorale di quella che è stata la sua scelta negli ultimi quindici anni, prima di restituirle l’accesso alle urne. Il leader delle proteste, Suthep, è una figura tanto losca quanto Thaksin, con un passato segnato dalla corruzione; inoltre è accusato di omicidio per avere ordinato l’intervento dell’esercito contro le proteste pro-Thaksin del 2010, che risultarono in quasi 100 morti e oltre 2mila feriti.
Non ci sono indicazioni che la crisi thailandese possa trovare una via d’uscita a breve, e la presente occupazione potrebbe viceversa portare il Paese verso un futuro ancora più instabile e violento. L’esercito e gli organi amministrativi centrali sono stati spesso l’ago della bilancia in questo conflitto, ribaltando in più occasioni il risultato delle elezioni, vuoi con un colpo di Stato come quello che nel 2006 rovesciò il governo Thaksin, vuoi con il “golpe amministrativo” che nel 2008 installò l’opposizione al governo. È probabile che Suthep aspetti l’intervento di uno di questi per risolvere lo stallo.
L’esercito, nonostante sostenga di non intervenire più nella politica thailandese, si sta dimostrando, come al solito, una forza indipendente dal governo, suggerendo e poi negando più volte la possibilità di un golpe e sottolineando la responsabilità del governo in caso di un’escalation di violenze. Sembrerebbe dunque che alla prima scintilla, l’esercito potrebbe colpire. Il governo, dal suo canto, se da una parte non cede alle pressioni dell’occupazione, dall’altra non si mobilita per mettere in manette Suthep nonostante i mandati di arresto: indice, forse, che la politica degli intoccabili e delle alleanze dietro le quinte è ancora viva in Thailandia.
Nelle province, intanto, alcuni hanno già indossato le camicie rosse e sono a loro volta scesi in piazza per contestare l’occupazione. Si parla addirittura di secessione. Quarantasei ambasciate estere scoraggiano i loro cittadini dal viaggiare in Thailandia – un grave colpo per un Paese il cui 7 per cento del Pil dipende dal turismo – e il clima di instabilità mina ovviamente gli investimenti stranieri.
di Edoardo Siani