Vi è mai capitato di guardare in tv una cosa così surreale e grottesca da non riuscire a cambiare canale? A me sì, precisamente ieri sera. RaiUno ha trasmesso, infatti, la registrazione del megaconcerto moscovita di Al Bano & Friends, quello della reunion storica con Romina Power, per intenderci.
Tra cosacchi, colbacchi bianchi stile Lara del Dottor Zivago, coro dell’Armata Rossa e presentatrici russe che ricordavano la Marina Massironi dei Bulgari di Aldo, Giovanni & Giacomo, abbiamo assistito al trionfo di quello che molti hanno definito trash italico anni Ottanta.
Qualitativamente, è bene dirlo subito, lo show è stato imbarazzante, a cominciare da un montaggio realizzato con il machete, forse in omaggio al “montaggio analogico del maestro Eisenstein” di fantozziana memoria.
Ma il substrato culturale di quello che abbiamo visto travalica i limiti del trash e degli stereotipi sull’italiano medio. In fondo, Al Bano, Romina, Toto Cutugno, Pupo, Umberto Tozzi, i Matia Bazar, Gianni Morandi, Riccardo Fogli e i Ricchi e Poveri hanno semplicemente messo in scena una parte del nostro patrimonio nazionalpopolare, una parte importante e per nulla trascurabile.
E ieri sera anche il più radical chic degli osservatori televisivi si è ritrovato a canticchiare sul divano Felicità o Sarà perché ti amo, Gente di mare o Gloria. E allora strappatela pure, la mia tessera di Radical Chic, perché è innegabile che il coinvolgimento emotivo della serata, tra il divertito e il disgustato, è stato alto.
Per chi, come me, è cresciuto negli anni Ottanta, il concerto russo di Al Bano ha avuto l’effetto della petite madeleine di Proust. Sono ritornato con la memoria ai Festival di Sanremo di 25 anni fa, al clima sconsideratamente spensierato di quell’Italia da bere. L’Italiano di Toto Cutugno, canzone orribile e gonfia di cliché insopportabili, ha comunque rappresentato una pagina importante della cultura pop e nazionalpopolare del nostro Paese. Per anni è stata una sorta di inno nazionale, soprattutto per i nostri connazionali che vivevano all’estero. Può non piacerci, e non ci piace, ma tant’è. E fare i conti con il proprio patrimonio culturale “minore” (anche se sarebbe divertente capire chi stabilisce e perché la distinzione tra cultura alta e bassa) è un esercizio utile e forse necessario.
Sul palco di Mosca, ieri sera, c’era una parte importante della storia d’Italia. E visto che il mondo è molto più vasto del solito circoletto dei soliti giornalisti o della timeline di Twitter, dobbiamo ammettere che forse la maggior parte degli italiani appartiene a quelle radici, a quel retaggio.
Non è un caso, infatti, che ben 5,5 milioni di telespettatori (pari al 19,83% di share) abbiano guardato lo spettacolo, facendo vincere a RaiUno la sfida del prime time.
Personalmente, dopo il raccapriccio e l’incredulità dei primi minuti e dopo aver assistito a scene di un trash nemmeno misurabile secondo standard umani, mi sono lasciato prendere dal clima di revival e al momento dell’attesissima reunion tra Al Bano e Romina mi sono persino emozionato. Sono pronto alla lapidazione pubblica, al processo su internet del Tribunale Speciale per la salvaguardia del Radical Chic, ma devo confessarlo. A me stesso, prima che agli altri. E mi sono divertito come un bimbo in un Luna Park. Perché ognuno di noi, nonostante gli sforzi che ogni giorno facciamo per apparire ricercati e originali, è legato a doppio filo a quel retaggio, al quel patrimonio culturale. Prendiamone atto. Tutti.