Cecilia Elda Campani è giovane, ventisei anni, vive a Milano. “You’r Right! 2.0” è il progetto al quale partecipa: in collaborazione con Assopace Palestina Italia e Human Supporters Association Nablus, 10 ragazzi italiani e 10 di Nablus si incontrano per uno scambio culturale e artistico. Il progetto parte nell’estate 2012, a Roma, conferenze, documentari e uno spettacolo ad hoc al Teatro Valle Occupato. L’inizio è buono, prosegue con la seconda fase tra dicembre 2013/gennaio 2014, destinazione: Palestina. L’esperienza romana viene replicata lì, dove la realtà è capovolta, dove il mare è proibito ai Palestinesi dal confine imposto da anni, dove i ragazzi che vivono quotidianamente l’occupazione hanno ancora la forza e il sorriso, mettendoti una mano sulla spalla, per dirti “… but it’s ok, it’s ok.” Questi sono gli appunti, di Cecilia che ho scovato sulla sua pagina Fb, veloci come quando li deve aver pensati, il viaggio che riporterò in breve di quanto visto da Cecilia dall’altra parte del muro.

Giorno 1– Atterraggio a Tel Aviv e Gerusalemme, poi.

palestina-foto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All’aeroporto non sono felici che tu sia qui. Perché sei qui – quanto ci resti – la tua religione – che lavoro fai – dove alloggerai – chi conosci qui. Se hai fortuna passi, se no 6 ore di interrogatorio, se no anche: a casa. Però Mike, il Signor Mike, ci porta a Gerusalemme. Cominciamo a camminare alle 6 di mattina, dopo aver fatto colazione. Falafel, cipolla, spezie, pane, mangiati tiepidi sui gradini sotto la porta di Damasco. Finiremo di camminare alle 15. Spianata delle moschee. Muro del pianto. Santo Sepolcro. Le vie del mercato. Gatti ovunque, e come nelle favole: spezie tessuti gioielli dolciumi vassoi di tè alla menta caffè e bambini che portano sul capo enormi teglie straripanti di pagnotte, ma enormi davvero, qualcuno grida, qualcuno ride uno sputo poi amuleti carne appesa ai ganci cibo da strada per strada.

Mura archi volte cunicoli scalinate, raggi di sole tra le tende. L’hanno distrutta e ricostruita 21 volte Gerusalemme, ci dice Mike. 21 volte. “E chissà quante volte ancora la dovranno ricostruire…vedete quei cantieri? Stanno scavando sotto la città. Qualcuno dice che stanno facendo una Nuova Gerusalemme, moderna, pulita, israeliana, qualcuno dice che è antiatomica. In realtà si vedono già gli effetti di questi scavi, e credo che il motivo sia più semplice. Questa è una zona altamente sismica. Scavano sotto le case e i negozi che sono ancora palestinesi, ne minano le fondamenta. Alla prima scossa, anche lieve, queste proprietà crollano. E se non crollano, i danni richiedono una ristrutturazione che lo stato di Israele ovviamente non copre per queste persone. Ci stanno spingendo via, piano piano, e per farlo non si fanno scrupoli a distruggere di nuovo la città.”. Camminiamo ancora.

La spiritualità trasuda dalle persone, dalla loro quotidianità, e dai ruoli che diamo all’architettura. Pochi palestinesi ancora resistono qui, Orgoglio e Amore per la terra, non si rassegnano. Filo spinato, telecamere, tute mimetiche e fucili.

Dopo bus e valigie e dormite da seggiolini storti, ecco l’accoglienza: Palestina, Nablus, i ragazzi ci aspettavano con una videocamera e il suono di una darbouka.

Siamo arrivati.

Giorno 2Nablus

Una piccola gatta bianca, sorda e non proprio pulita, ha deciso che vuole dormire solo sulle mie gambe. E io la lascio fare. Dopotutto neanche io sono proprio pulita. Niente lo è qui. Tutto, dalle case alle bancarelle alle macchine agli uffici, sembra avere avuto una vita precedente in cui era nuovo, moderno e bello. Ora tutto è aggiustato, alla buona, appoggiato lì un attimo, buttato in un angolo ma non nascosto, scotch cartone alluminio giornali lamiera spago fil di ferro secchielli e tappeti. L’Estetica è relativa.

Il pane è avvolto nei sacchetti di plastica, le saponette come mattonelle formano colonne ad altezza uomo sul cemento, teste di capra ben allineate sul banchetto del macellaio. “Here you eat the best kanafah in Nablus”. È vero. Profumo ovunque, la sporcizia is a state of mind.

Breaking Ice Activity – expectations – fears – our final show will kick asses, “a proposito, come si dice da voi culo?”. Non me l’hanno insegnato. Qui non si dicono mai parolacce in presenza di una donna. Gli italiani cominciano a patire i primi due giorni senza alcolici. Sopravviveremo fumando shisha e bevendo tè.

Giorno 3 – Nablus e Rafidiya

Vento forte, l’inverno più rigido degli ultimi 100 anni qui. Nel quartiere ebreo di Gerusalemme ragazze soldato appena maggiorenni sorridevano, scattando le foto per i loro profili. Portavano alla spalla i kalashnikov come borsette. Sembrava una gita scolastica. Quelle ragazze stanno passando il periodo che la maggior parte degli israeliani definisce “il migliore della mia vita”, i tre anni di leva obbligatoria nell’esercito. Solo due per le donne.

Nei documentari che ci mostrano qui a Nablus, ventunenni certi di proteggere la loro patria giocano col manico del coltello, sapendo che ad impugnarlo davvero sono quelli che danno gli ordini. Loro Eseguono, è Lavoro. “Possiamo anche andare a casa il weekend”. La storia è una spirale.

I Palestinesi? Ricostruiscono dove serve, lasciano le macerie dove serve, documentano i fatti e li insegnano ai più piccoli, perché la resistenza non si spenga e non degeneri. I bambini camminano come piccoli adulti, ti basta voltarti un attimo per immaginarli già con una sigaretta in bocca ed in mano una tazza di caffè, appoggiati allo stipite di una bottega. Invece loro sgattaiolano nei sottoscala e ballano la dubstep meglio di tutti quelli che hanno visto su Mtv. Mi dicono che “Arab’s got talent” esiste e ha appena vinto un palestinese. I jeans si chiamano ‘cowboys’. La fanta è arancione, oppure alla fragola. L’hummus si mangia volentieri anche a colazione. “Return is our right and our destiny”. Perciò vivono ancora. Nei vicoli della città vecchia sobrie lapidi ad ogni angolo, le date di nascita, le date di morte, nomi e nomi. «E’ successo quando i carri armati sono entrati in città». Accanto, appese con lo scotch, locandine strabordanti di scritte fluorescenti e fotografie ritoccate, scolorite dalle intemperie. Mostrano ragazzi arabi che imbracciano fucili in pose di sfida.

«Sono dei cantanti? Danno un concerto? Rap?» – «No. Sono ‘quelli nuovi’. Per loro non c’è ancora una lapide.». Il vento si è calmato. Lo aspettiamo di nuovo stanotte, insieme al coprifuoco.

Fine prima parte – Continua…

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Fiction: Italia vs. Regno Unito, quando la tv se la prende con la working class

next
Articolo Successivo

Caso marò, tra realtà e velleità

next