Il collaboratore di giustizia torna a deporre e ammette particolari inediti sul suo passato. "Mi sono autoaccusato di omicidi che non ho mai commesso"
“Mi sono autoaccusato di omicidi che non ho mai commesso”. Gaspare Mutolo, lo storico collaboratore di giustizia con la passione per la pittura, torna a deporre in un processo. E collegato in videoconferenza con l’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo, dove si sta svolgendo il processo per la Trattativa Stato-mafia, ammette particolari inediti sul suo passato. “Io avevo il compito di indurre i mafiosi a collaborare. Stavo svolgendo un lavoro dentro il carcere. La strategia era di controllare i mafiosi, di farli finire in galera e di indurli a collaborare anche dopo anni: sono caricato, ad esempio, gli omicidi di Di Maggio e di Inzerillo”, ha spiegato Mutolo mentre l’avvocato Giuseppe Di Peri, legale di Marcello Dell’Utri, lo incalzava.
Mutolo è uno degli ultimi collaboratori di giustizia interrogati da Paolo Borsellino, prima della strage di via d’Amelio. E proprio durante un interrogatorio nel luglio del 1992, l’ex braccio destro del boss Rosario Riccobono diventa testimone di un fatto cruciale. “Io – ha raccontato il pentito – ero in un ufficio della Dia in via Carlo Fea a Roma e Borsellino era in un’altra stanza. All’improvviso l’ho sentito gridare. Ho sentito parlare di dissociazione e Borsellino che diceva: ma questi sono pazzi! Borsellino era arrabbiato, incazzato e continuava a gridare: ‘ma che vogliono dire, che vogliono fare’. Si vociferava, si era saputo che c’erano dei personaggi delle istituzioni, parlo dei Carabinieri, ma anche dei servizi segreti, di personaggi che dovevano intercedere per portare avanti il discorso della dissociazione. C’era pure prete e dei personaggi politici che dovevano portare avanti questo discorso della dissociazione e di ampliare il discorso dei collaboratori”.
Il fotogramma più importante della testimonianza di Mutolo è però quello che va in onda a Roma il 1mo luglio del 1992 “In un posto vicino alla prefettura di Roma – ha raccontato Mutolo riavvolgendo il nastro dei ricordi indietro di vent’anni – incontrai Borsellino. Durante l’interrogatorio lui ricevette una telefonata dal ministero e mi disse che si doveva allontanare perché doveva incontrare il ministro”. Quel giorno, infatti, Nicola Mancino s’insedia al vertice del Viminale, dopo essere stato nominato ministro dell’Interno nel primo governo guidato da Giuliano Amato.
“Borsellino tornò dopo circa due ore – ricorda Mutolo – non commentò niente, ma era molto arrabbiato. Io mi misi a ridere perché aveva due sigarette accese contemporaneamente, una in bocca e l’altra nel posacenere, tanto era agitato. Poi ho capito perché mi disse che dopo aver parlato con il ministro incontrò Vincenzo Parisi (all’epoca capo della Polizia ndr) e Bruno Contrada (numero tre nella catena di comando del Sisde ndr) che gli avevano detto di sapere del mio interrogatorio. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Anzi gli disse: so che è con Mutolo, me lo saluti”. Proprio la connivenza di Bruno Contrada con ambienti legati a Cosa Nostra è uno dei temi svelati da Mutolo nei suoi interrogatori: nel 2007 il super poliziotto venne condannato in via definitiva a dieci anni di reclusione. Quel primo luglio del 1992 lascia una traccia anche nell’agenda grigia di Borsellino, una delle due utilizzate dal magistrato in quel periodo e l’unica rimasta in possesso dei familiari dopo la strage di via d’Amelio. “1° luglio ore 19:30: Mancino” scrive il magistrato. Per anni Mancino, che è imputato nel processo sulla Trattativa per falsa testimonianza, ha detto di non ricordare di aver avuto un incontro con Borsellino il giorno del suo insediamento, salvo poi ammettere di non poterlo escludere a priori.