Il 7 agosto saranno 40 anni dal giorno in cui un uomo alto meno di un metro e settanta salì al centodecimo piano di una delle twin towers di New York, tese un cavo di acciaio fra i due grattacieli aiutandosi con arco e frecce, e vi camminò sopra di prima mattina, 61 metri di percorso a 417 metri di altezza, venti minuti di passeggiata mista, a saltelli, di corsa, sdraiato. Era il 1974 e grazie a Philippe Petit, funambolo e artista di strada francese, anche New York, la città senza monumenti, ebbe il suo: non scolpito nella pietra o racchiuso in una targa di ottone, ma volatile. Custodito in eterno dalla sua stessa fugacità.
Spero che qualcuno celebri questo anniversario. Non che ci sia, in un anno tondo, qualcosa di speciale, ma è convenzione che la memoria contemporanea cammini su puntelli simbolici. E dopo 40 anni la camminata nel cielo di Petit, che non inseguiva la gloria ma voleva più di tutto fare ciò che era capace di fare, è messaggio su misura per l’epoca che viviamo. Ci ricorda che l’unica arte che valga la pena di inseguire è essere veramente se stessi. Cercare quell’istante di bellezza che appartiene a ognuno di noi.
Di Petit non si è scritto molto; con le sue imprese si è fatto in un certo senso ineffabile. Perciò mi ha colpita che uno scrittore irlandese, Colum McCann, ne abbia raccolto il messaggio con tanta forza, avendo il coraggio di fare del funambolo un personaggio del suo settimo romanzo: Questo bacio vada al mondo intero (Bur, traduzione di Marinella Magrì, € 11,90, pp. 451). E mi ha stupita scoprire che, benché il libro abbia vinto il National Book Award americano nel 2009, sia uscito in Italia nel 2010 e Bur lo tenga gelosamente in catalogo, lo conoscano in pochi.
È ambientato a New York con epicentro proprio in quel 7 agosto di 40 anni fa.
Ci sono una madre e una figlia prostitute nel Bronx, un prete irlandese dedito al dolore altrui («se non poteva curarlo, allora lo prendeva dentro di sé»), un gruppo di donne che hanno perso i figli in Vietnam, una ragazza di colore fra le prime a laurearsi. Tutti ugualmente protagonisti, si incrociano sotto la fune di Petit e, proprio quel giorno, vivono qualcosa di cruciale. Storie su cui McCann produce un doppio effetto: descriverle con minuzia e realismo, da molto vicino, e contemporaneamente fotografarle dall’alto, come se le guardasse dalla corda su cui cammina il funambolo. Alcune finiscono male, altre trovano un riscatto, magari nella generazione seguente.
Let the Great World Spin è il titolo (peccato per l’insignificante versione italiana), ed è esattamente questa la sensazione. Un’istantanea del mondo che vortica, con noi dentro. Un timelapse esistenziale su cui domina, piccola ma potentissima, la sagoma di Philippe Petit. «La sola cosa per cui vale la pena intristirsi – scrive McCann – è sapere che a volte in questa vita c’è più bellezza di quanta il mondo possa reggerne».