Il mondo di fuori
di Rosario Ruggiero
1.
Odore di disinfettante, pungente, saturo d’aceto. Una donna in camice azzurro, bassa più del necessario, non bella, con fare meticoloso lava il pavimento del corridoio alla mia destra. Non risparmia né acqua né fatica. L’odore mi pizzica le narici, lo avverto forte, a ogni respiro entra e va giù, sempre più giù.
Oggi non avevo ancora fatto caso al mio respiro. Ero riuscito ad arrivare fino a quest’ora senza che il pensiero mi si focalizzasse sul respirare e adesso, per colpa di questa stupida donnetta e del suo vizio di spargere aceto dappertutto, sono obbligato a pensare al cavolo di respiro e se in me funziona correttamente. A ogni refolo d’aria che entra dalle narici deve corrispondere un altro refolo d’aria che deve uscire, in un movimento oscillatorio di prendere e lasciare che è bene non si interrompa mai. È così che sta andando, ma per un attimo non ne sono certo.
Pari. Il movimento deve essere pari. Una azione doppia, mai singola, perché ad una inspirazione deve corrispondere una espirazione. Necessaria. Vitale. Aria che entra e aria che esce. Aria, non aceto. Quella stupida donnetta dovrebbe smetterla di mettere così tanto detergente nel secchio. Imparare a diluire. Imparare anche a lavare, forse.
Mi guardo attorno. Devo spostare l’attenzione in qualche modo, così hanno detto: quando ti fissi su un particolare allarga la veduta e non pensare. E’ questo che devo fare, anche se il pensiero va a tutto l’aceto che mi sta entrando nei polmoni. Mi chiudo il naso tra le dita e respiro forte con la bocca. Aria meno pura mi entra dentro, l’odore è meno intenso. Respiro un po’ affannato.
Mi guardo attorno. Queste stanze sono tutte uguali, simili in tutti gli ospedali. Una fila di sedie in metallo laccato e formica bianca, addossate alle pareti bianche anch’esse. Macchie di umido agli angoli alti disegnano sfumature di grigio muffa. Non brutte da vedere, a guardarle con occhio distratto, meglio dei due manifesti reclame posti sul lato lungo di fronte a me.
Mi guardo attorno. Sono esattamente al centro della fila di sedie più numerosa, sette in tutto, tre alla mia destra e tre alla mia sinistra. Io al centro sono seduto e aspetto, con le narici tappate dalle dita per non sentire l’odore che si alza dal pavimento, per non far sì che il pavimento mi entri dentro. Una volta mi è successo, un po’ di tempo fa. Non era un pavimento, era solo terra. Bagnata, fradicia. Ci camminavo sopra da un bel po’. Mi sembrava una bella cosa camminare sotto la pioggia a piedi nudi sulla terra, con le scarpe in una mano e la valigetta nell’altra. L’odore di pioggia e erba e muschio era talmente forte che mi si infilò dentro e ci scivolai, fino a diventare terra io stesso. Una sensazione sgradevole di acqua e fango, giù, dentro me. Io fermo immobile in mezzo al prato, come una statua di legno che come legno assorbe. Non so quantificare quanto durò quella sensazione, abbastanza per spaventarmi. Da allora evito i prati sotto la pioggia e l’ho risolta così.
Mi guardo attorno. La donna in camice azzurro mi lancia occhiate furtive, me ne accorgo anche se finge di guardare altrove. Mi scruta, dal basso della sua veduta. Guarda anche dietro sé, nel corridoio appena lavato, a sincerarsi di protettive presenze che non la facciano restare sola a due metri di distanza da me, che sono seduto con le dita a tappare le narici esattamente in mezzo a una fila di sedie tutte uguali, in pantofole di pelle marrone col pigiama azzurro mare che si intravede sotto la lunga vestaglia da camera, bianca, aperta sul davanti. Forse teme che le tiri dietro una pantofola. L’ho già fatto, una volta, ma non a lei. Le voci in questo posto corrono veloci, si diffondono rapide, tutti sanno. Sanno di come ho lanciato la pantofola, la destra, verso l’infermiera grassa che mi cucina quel cibo schifoso tutti i giorni, da una distanza doppia rispetto a quella che mi divide ora dalla donnetta in camice azzurro. Sanno di come l’ho centrata nel pieno di quel suo volto grasso e molliccio, proprio sulla bocca da cui esce quella voce fastidiosa. Potrei rifarlo, se volessi. Potrei sfilare la pantofola dal mio piede destro e lanciarla a tutta forza verso la donna bassa che sparge troppo aceto nell’aria. Forse dovrei farlo, lo meriterebbe. Potrei farlo ma non voglio. Lo sguardo che lancio verso il camice azzurro che si muove tra acqua e aceto dice questo, come il sorriso che accompagna lo sguardo. La donna sparisce dietro il muro e sento solo lo sciabordio dello straccio nel secchio.
Mi volto a guardare di fronte, le dita tappano ancora le narici.
Aspetto.
Sì, avrei potuto farlo. Lanciare di nuovo qualcosa di mio addosso a qualcuno.
Non che sia una gran soddisfazione alla fine. E’ troppo il trambusto che segue quel gesto. Magari nel momento in cui la mano va a posarsi sulla suola della calzatura per sfilarla, in cui la mente già vede il percorso che farà qualche attimo dopo, quel gesto può sembrare liberatorio, un moto di energia che si propaga nell’aria fuoriuscendo da dove trabocca, ristabilendo per un attimo l’equilibrio. Ma è un attimo, appunto. Dopo sei solo uno con un pigiama azzurro mare e una pantofola in meno ai piedi, con un sacco di sguardi fissi addosso, più fastidiosi di quello che volevi scacciare, e magari tocca pure sentire parole parole parole e tutto il resto. Insomma, non ne vale molto la pena.
“Ecco”, mi dico mollando la presa delle dita e provando a far rientrare l’aria attraverso il naso, “sono guarito!”, ma il respiro mi sembra ancora troppo affannato, l’odore ancora troppo forte e l’attenzione ancora troppo rivolta verso quella parte di me che regola il flusso d’aria per essere guarito veramente. Chiudo gli occhi e ci provo, ad allargare la veduta, ma tutto ciò che riesco a fare in questo momento è richiudermi le narici, respirare forte con la bocca e, più che altro, aspettare, aspettare.
Aspettare.
La prima volta che sono venuto qui in questa stanza c’era più gente attorno a me. Non era una bella giornata. Io ero sempre seduto su questa sedia, esattamente a metà della parete, ma ai fianchi avevo mia madre da un lato e mio padre dall’altro. La simmetria era rovinata da mio fratello, ha un vero talento nel rovinare le simmetrie, lui. Stava in piedi di fronte alla finestra a sinistra, guardava fuori e moriva dalla voglia di fumare una delle sue stupide sigarette col filtro bianco: un elemento di disturbo in un quadro altrimenti perfetto. Ci aveva portati lui qui tutti quanti e il viaggio era stato piuttosto silenzioso, dopo tutto il baccano che lo aveva preceduto, poche indispensabili parole per tutto il tragitto, con lui che lasciava parlare le sue sigarette tutte bianche. Guidava silenzioso e fumava, con mio padre a fianco e io e mia madre seduti dietro. Lei aveva l’aria preoccupata, ma è tipico di mia madre avere l’aria preoccupata, mio padre invece sembrava più normale, forse rassegnato. Mio fratello sembrava scocciato. In effetti aveva dovuto prendere una mattinata libera dal lavoro per portarci tutti quanti in questo posto e la cosa lo disturbava, anche se non lo diceva apertamente. Più che altro fumava e dalla quantità di cicche spente potevi capire tutto il suo nervosismo nel dover fare quello che stava facendo. Che poi, non è che stesse facendo chissà cosa. Guidare un’automobile con tre passeggeri a bordo verso un ospedale alle dieci del mattino. Forse era scocciato per via che la mamma lo aveva svegliato nel cuore della notte a causa mia, ma allora la colpa era della mamma, non mia, e non capivo perché quando arrivò mi salutò a stento.
E’ sempre stato strano questo mio fratello. Bravo, niente da dire, e pure gran lavoratore. Parlava sempre poco, e la cosa mi piaceva molto, anche se in quel poco riusciva a smontare tutto quello che facevo. O che non facevo. Insomma, questo mio fratello sembrava fosse stato piazzato lì per qualche oscuro motivo a badare a tutte le faccende che mi riguardavano, e in tutte ci trovava qualcosa da ridire, e in tutte sembrava ci fosse sempre qualcosa da correggere. Un gran rompicoglioni, ad essere sincero.
L’attesa per il colloquio giornaliero con il medico che mi tiene in cura è molto fastidiosa. Nella stanza tutta bianca dove mi trovo non c’è nulla che possa permetterti di trascorrere il tempo senza dover pensare a te stesso, all’aceto e a come respiri. L’unica distrazione è data dai due manifesti sbiaditi appesi alla parete di fronte, ma li ho già letti tanto da sapere a memoria cosa c’è scritto, e non è che siano tanto interessanti. Di più: qualcosa in loro me li rende decisamente antipatici. Il primo è uno stupido poster di propaganda per la donazione del sangue, talmente vecchio che ricordo di averlo visto già parecchi anni addietro e che, ora che ci penso, non mi è mai piaciuto. Ci sono disegnati quattro scolaretti sorridenti dall’aria tutta per benino che fanno girotondo scambiandosi fiori rossi, e ognuno di loro reca sul grembiulino una scritta con quello che deve essere il proprio gruppo sanguigno, e una scritta in alto a destra chiede A che gruppo appartieni?, perché Saperlo può salvare la tua vita, e una scritta enorme in basso reca l’acronimo dell’associazione donatori, e allora il tutto è un modo che hanno questi donatori di far proseliti, immagino. Il tutto, scolaretti e scritte e domande, in un campo verde acido che disturba gli occhi. Sarebbe stato meglio un campo rosso a mio avviso, dato che parliamo di sangue, perché a me tutto l’insieme non richiama affatto il sangue, né mi spinge a donarlo, anzi tutto il contrario, perché gli scolaretti sono disegnati veramente male e sono troppo per benino e non mi ispirano nessuna simpatia. Mi ricordano certi compagni che avevo al tempo delle elementari, sempre ben vestiti e ordinati e col padre fuori in auto ad attendere. Anzi, ora che ci penso, uno di loro, quello biondo, mi ricorda quello che aveva detto alla maestra che io gli avevo rubato non so che merenda, e la maestra lo aveva detto alla direttrice, e la direttrice lo aveva detto a mia madre, e la notizia, dopo tutto questo passaggio femminile, era finita alle orecchie di mio padre e in ultimissimo passaggio alle sue sberle, maschilissime nonostante l’apparenza. Per cui se la mia vita non verrà salvata, non essendomi mai premurato di sapere a che gruppo sanguigno appartengo a causa della mia avversione verso le donazioni nata da una avversione verso uno stupido poster contenente messaggi che per me andavano oltre le scritte e i disegnini, ciò è a causa di una merenda mai rubata e soprattutto di uno stronzetto biondo col padre fuori in macchina ad aspettare.
L’altro poster mi è antipatico perché c’è il mare, e a me non piace il mare.
Potrebbero mettere qualche rivista. Uno potrebbe venire qua dentro, sedersi su una qualunque delle sedie tutte uguali e sfogliare una rivista. Gli impedirebbe certo di concentrarsi su inutili donnette in camice azzurro che spargono troppo detergente, sul detergente che sa troppo di aceto e di conseguenza sul funzionamento del proprio respiro. Ne guadagnerebbe, il respiro, se ci fosse una rivista a distrarre e non solo due inutili manifesti. Anche solo una di quelle stupide riviste mediche che abbondano nella stanza del dottore che mi ha in cura. Non sarebbe molto interessante neanche quella, ma uno passerebbe il tempo, lo ingannerebbe, si dice. Evidentemente in questo posto non sono ammessi inganni, verso nessuno, nemmeno verso entità immateriali. Peccato. Sarebbe stato un buon modo di trascorrere i minuti che passano dalla tua entrata in questa stanza tutta bianca e il momento in cui dovrai lasciarla per sederti di fronte a un signore in camice lungo, tutto bianco, e parlare.
Quarta di copertina
Il primo errore che un uomo può fare è fermarsi e guardare il mondo. Il secondo, ben più grave, è cercare di dare un senso a ciò che vede: rischia di scoprire che un senso non c’è.
Vinicio Di Maggio li ha commessi entrambi.
Si è fermato a un certo punto a guardarsi attorno, e ciò che ha visto lo ha portato a farsi da parte per lasciare agli altri la fatica di vivere. Il suo presente ora è una casa di cura in cui si è rifugiato, varie fobie con cui lottare, una finestra da cui guardare la vita degli altri andare avanti e la presenza discreta di una donna sconosciuta a cui affida pensieri ricordi e riflessioni.
Il Mondo di Fuori è il racconto di un esilio volontario, di una ricerca intrapresa non volendo e di una scoperta finale. Tanto banale quanto difficile da trovare, se non ti fermi a guardare.
L’autore
Rosario Ruggiero è nato in un paesino dell’Irpinia nel settembre del 1967. Vive in Piemonte, tra Cuneo e Torino, dove lavora come impiegato, precario. Tiene un blog, Cronache Tauriniche, dove riversa stati d’animo e considerazioni.