Ormai sono diventati una categoria: da Morgan a Briatore, l'invasione di chi giudica il talento e, soprattutto, provoca le reazioni emotive dei concorrenti
Ormai sono un esercito. Sono narcisisti, capricciosi, imprevedibili, spesso anche un po’ stronzi. Sono i giudici dei talent show. Mentre i presentatori classici sono praticamente a rischio d’estinzione, loro prosperano e si moltiplicano a velocità impressionante. Per avere un’idea di quanti siano basta fare una veloce rassegna dei format italiani più recenti che prevedono la loro augusta presenza. Ci sono talent canterini (X Factor su Sky e The Voice su Rai2), di arti e umanità assortite (Italia’s Got Talent su Canale 5), di cucina (Masterchef ancora su Sky, e il suo fratellino povero The Chef su La5), per aspiranti stilisti, parrucchieri, truccatrici e modaioli (Fashion Style e Make Up Master su La 5, Project Runway in partenza a febbraio su Fox Life), per scrittori o presunti tali (Masterpiece su Rai3), per pasticceri (Bake Off su Real Time), per businnesmen (The Apprentice, di nuovo di Sky), per piloti automobilistici (Make It Your Race, su Dmax) e chissà di quanti altri ancora.
Moltiplicate questi programmi per 3 o per 4 (il numero di loro presenti in ogni format) e avrete il totale dei giudici in attività sui nostri schermi. All’estero, del resto, non sono messi meglio. Non esiste praticamente settore artistico, sportivo e professionale che non abbia o abbia avuto l’onore di vedersi dedicato un talent. Tra gli altri ci sono talent per cantanti lirici, avvocati, boxeur, uomini politici, guardie del corpo, comici, mimi, fattori, restauratori e chi più ne ha più ne metta. A fine gennaio partirà in America, sulla rete tbs, la seconda edizione di un talent sui nerd, King of the Nerds, appunto, che incoronerà il nerd più nerd di tutti, al termine di una serie di sfide demenziali ambientate nella mitologica Nerdvana. Imperdibile.
E, come si diceva, tutti questi talent hanno bisogno di giudici adeguati. Anzi, si può tranquillamente affermare che i giudici sono in assoluto il principale fattore critico di successo di questa tipologia di format. L’ “assioma del talent show” (coniato per l’occasione, ma non per questo meno valido) sostiene infatti che un talent show è forte solo e soltanto nella misura in cui i suoi giudici sono forti. Ma quali caratteristiche deve avere un giudice per essere forte? Semplice, deve abbinare competenza con un carattere difficile; insomma, deve essere bravo e un po’ stronzo. Quest’ultima qualità non è facoltativa: è una necessità produttiva. I format di talent show non vengono visti tanto per le esibizioni (spesso mediocri) dei concorrenti, quanto per le loro reazioni emotive: e più sono forti e drammatiche, meglio è. E i giudici servono proprio a questo: ad accelerare e amplificare il più possibile le loro reazioni emotive.
Giudici pappamolla, che non finiscono più di scusarsi quando devono eliminare qualcuno, non servono a nulla. L’eroe buono (il concorrente) risalta solo se c’è un anti-eroe cattivo (il giudice). E’ la regola chiave di tutte le narrazioni, e anche in televisione è così. Il presentatore classico, che ha il ruolo di rassicurante padrone di casa, non può permettersi di essere troppo cattivo; mentre un giudice invece sì. D’altro canto lo chef Gordon Ramsey e il discografico Simon Cowell hanno costruito la loro fortuna sul loro carattere duro e difficile. Da questo punto di vista Flavio Briatore, il boss di The Apprentice, che venerdì 17 ritorna su Sky Uno HD, è perfetto. Sulla sua competenza si può forse discutere. Ma sull’antipatia c’è poco da dire. Il suo omologo americano, d’altro canto, era il non meno discutibile e criticato Donald Trump, mica un oscuro e noiosissimo manager, magari meno spregiudicato, ma anche molto meno efficace televisivamente. Perché alla fin fine di questo si tratta: di un programma televisivo. E per dare forza televisiva a questo genere di format, bisogna lavorare a fondo sulle reazioni emotive dei concorrenti. Ogni genere di reazione, positiva o negativa, purché ci sia. Altrimenti si fanno (forse) programmi eticamente più corretti, ma più noiosi di una rassegna di film polacchi.