L’incolpata arriva davanti ai suoi giudici: cinquecento poltrone vuote. L’emiciclo sembra un cratere dell’indifferenza, la solita immortale scena del me ne fotto. È venerdì, e pure mattina presto. A quest’ora, sono le nove e mezza, di questo giorno della settimana (è 17 sul calendario!), “mai mai e poi mai” un deputato potrebbe essere nel luogo in cui è stato chiamato, nel centro esatto dei suoi interessi, dei suoi obblighi e, in linea teorica, anche delle sue passioni. Hanno fatto tutti la valigia la sera precedente: ragazzi di prima nomina e signori di antico pelo. Trentenni e settantenni, quelli col panciotto e le signorine sportive in jeans. Di destra, di sinistra e di centro. In alto e in basso. Senza grilli per la testa o anche grillini sputafuoco già accomodati all’uso in vigore nelle stanze dei bottoni: ricordarsi solo di passare alla cassa. Nessuno controlla altro, nessuno censura, nessuno deve rendere conto.
E così Nunzia De Girolamo, emblema terrificante di questa meglio gioventù tanto antica e tanto vicina ai vizi primordiali della classe dirigente che ha condotto l’Italia al suo quotidiano patibolo, pronunzia il discorsetto dell’innocenza davanti a suo marito che la guarda pensoso da lassù, nello spicchio di sinistra di questo Parlamento che sembra già cassa vuota, Palazzo inerme e chino verso altri pensieri e altre paure: Renzi che fa le scarpe a Letta, il governo che cade, Berlusconi che conduce tutti alle elezioni anticipate. Nunzia e Francesco, giovanotti arrembanti e influenti, coppia bipartisan, tecnici dell’amore orizzontale, a intesa larga, si assistono, si guardano, si concentrano, misurano le parole dell’una e i cenni solidali dell’altro, l’affetto e i pericoli che sfidano il loro sogno. Volersi tanto bene e fare tanti figli oppure tanti voti, scalare ancora un po’ oppure resistere ancora un po’. Perciò l’onorevole Boccia conta quante volte “mai” l’onorevole Nunzia dirà: mai un affare, mai una svista, mai un urlo, mai un cliente, mai una ruberia, nemmeno piccola. È tutto un complotto. Parla a lui, promette a lui, conferma a lui. A chi altri sennò? Non c’è il premier e non c’è il governo. Solo famigli interessati a segnalare la presenza, la vicinanza nella tristezza. Il governo è osso di seppia, lungo banco desolato. Un affaccendato Angelino Alfano si fa vedere, resta qualche minuto poi si alza. C’è Quagliariello, quello delle riforme, piuttosto sbadigliante. Il corteo striminzito comprende cinque sottosegretari, sempre Ncd.
Sono affari loro, è chiaro. Non è un problema della politica, una questione che attiene alla democrazia, all’esercizio del potere e al suo controllo di legittimità. No, l’affaire di Benevento è una risultanza impazzita di uno spargimento di sangue tra clan rivali, vendette sannite, intercettazioni sannite, beghe del Fortore. Ecco dove la politica perde ogni sua reputazione, restituisce ai cittadini, che pure avrebbero bisogno della testimonianza di buoni comportamenti, la consapevolezza che nulla mai è cambiato e nulla mai potrà cambiare. Persino i grillini, che su De Girolamo hanno presentato una mozione di sfiducia, sono in undici. E gli altri cento? Quelli di Forza Italia dispersi, assenti. Solo Brunetta, capogruppo. Anzi no: altri due colleghi lo accompagnano al rito falso dell’accertamento della verità. A nessuno frega nulla. Non al Pd, che ha lasciato al calabrese Oliverio, grande macinatore di tessere, l’onere di interrogare e incolpare il ministro. Si vede invece Rosy Bindi, e sarà pure da troppe legislature qui ma almeno mostra di volerci restare, di crederci almeno un po’.
Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2014