Di nuovo occhi puntati su Okinawa, l’isola principale dell’antico, indipendente e prospero Regno delle Ryukyu divenuta oggi, suo malgrado, la prefettura più povera del Giappone. Di fatto, inoltre, è ancora “occupata” dagli Usa, che qui posseggono, interamente pagate dal Giappone, ben 32 basi militari dove vengono ospitati circa 27 mila soldati e le loro famiglie. Un totale di circa 50mila persone che con la scusa di “difendere” l’indipendenza del Giappone e la “libertà di navigazione” spadroneggiano su questa bellissima quanto martoriata isola provocando spesso odiosi incidenti, in particolare a sfondo sessuale, contro le donne locali.
Incidenti dai quali nonostante recenti accordi che ne limitano l’immunità, i colpevoli escono in genere senza gravi conseguenze. Senza parlare dei gravi e frequenti incidenti (tempo fa un elicottero è precipitato nel cortile di una scuola, fortunatamente di domenica), dell’inquinamento acustico e ambientale e dei rischi derivanti dal fatto – oramai appurato – che nonostante precisi divieti e smentite ufficiali, gli americani vi introducono, fanno transitare e probabilmente detengono un imprecisato numero di testate nucleari.
Una servitù militare che coinvolge oltre il 20 per cento del territorio ma che dà anche lavoro ad un terzo della popolazione e garantisce ampi e sempre maggiori profitti ai proprietari dei terreni sui quali insorgono le basi, che il governo centrale non ha mai requisito e per l’affitto dei quali continua a pagare enormi canoni ai proprietari, per la maggior parte vecchi residenti di origine cinese. Dopo essere stata nel 1945 teatro di una delle battaglie più furiose e sanguinose della storia. Per quasi tre mesi le truppe Usa si scontrarono con quelle giapponesi massacrandosi le une contro le altre e provocando, assieme, la strage dei civili, oltre 100mila persone uccise in parte dagli americani e in parte dall’esercito imperiale. Quest’ultimo, poi, imponeva ai giapponesi una sorta di “suicidio assistito” per evitare che finissero in mano agli americani. Okinawa è stata per molti anni oggetto di accordi segreti, baratti e ricatti da parte di governi (Giappone e Stati Uniti) che per i pochi “indigeni” rimasti sono percepiti come stranieri e, sia pur per motivi diversi, entrambi invisi.
Domenica 19 gennaio si vota per la carica di sindaco a Nago. Una piccola cittadina di 46mila persone sulla quale incombe una decisione già presa nei corridoi di Tokyo e Washington, accettata, scatenando l’ira dell’assemblea prefetturale che ne ha chiesto le dimissioni, dall’attuale governatore di Okinawa Hirokazu Nakaime ma non ancora esecutiva. La rielezione – abbastanza improbabile dell’attuale sindaco di Nago, Inamine, potrebbe infatti bloccarla.
Di che si tratta? Dell’ennesimo baratto, dell’ennesima svendita di diritti in cambio di denaro. Per carità, tanto denaro. Trenta miliardi di dollari l’anno, per dieci anni. Tanti da poter garantire a tutti i residenti (che stanno aumentando giorno dopo giorno, sfruttando un efficace quanto poco pubblicizzato “sussidio” che il governo centrale offre a cittadini di Tokyo che si trasferiscono) una sorta di “reddito minimo”, contributi per l’affitto, sconti nei supermercati. Dopo anni di polemiche, rinvii, improvvise accelerazioni e brusche frenate, Giappone e Stati Uniti si sono infatti accordati. Chiusura dell’oramai economicamente, logisticamente e socialmente “insostenibile” base aerea di Futenma, le cui piste di atterraggio sono situate nel bel mezzo di Ginowan, con le conseguenze che si possono immaginare (pensate ad una pista di atterraggio, militare e attiva 24 su 24, a Villa Borghese) e costruzione di una nuova base a Henoko. Un progetto già proposto, approvato e duramente contestato da molti anni. Un progetto che sembrava essere stato abbandonato e che invece, se l’attuale sindaco di Nago verrà spodestato, rischia di andare in porto.
L’impatto ambientale potrebbe essere disastroso: si tratta di reclamare e cementificare terra dal mare, provocando gravi alterazioni dell’ecosistema e la probabile estinzione del dugong (soprannominato “mucca di mare”) sorta di empatico e pacioccone mammifero erbivoro marino, presente da millenni in questi mari ma di cui, ormai, rimangono pochissimi esemplari.
Sulla stampa italiana qualcuno, evidentemente poco informato o in preda a ottimi allucinogeni, ha definito questo accordo un successo di Abe. Che, dopo aver resuscitato l’economia con la sua Abenomics (ma quando mai?) avrebbe finalmente “sfrattato” gli americani chiudendo la vecchia e obsoleta base di Futenma. Peccato che, a spese dei cittadini giapponesi che nonostante la sempre più rumorosa grancassa nazionalista preferirebbero nutrirsi di diritti e garanzie sociali, piuttosto che di mantra revanchisti, abbia deciso di regalargliene un’altra, nuova di zecca. Neanche l’Italia ha concesso tanto: agli Usa rimborsiamo “solo” il 41% delle spese sostenute per “difenderci”. Altri media, soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone, hanno invece dedicato titoloni ed editoriali alla vittoria del “buon senso”, salutando la ritrovata, indissolubile, alleanza nippo americana contro la crescente arroganza cinese. Con il Wall Street Journal che si avventura persino in un’analisi e un titolo da organo di partito: “Vittoria del pragmatismo democratico contro le nuove minacce regionali” e giù con le solite solfe sulla minaccia cinese e quella nordcoreana, ignorando quella, più probabile, di un colpo di testa, di un attacco preventivo, o persino di un semplice incidente “alla marò” che chi, abituato a stare in corsia di sorpasso, sta a sua volta per essere superato, potrebbe, come ultima carta, tentare.
Ma c’è anche chi saluta l’accordo e vede un grande futuro per l’isola più lontana, sfruttata, tradita e svenduta dell’arcipelago. “A me della Cina, delle basi e del dugongo interessa poco – chiosa un italiano che ha deciso, come stanno facendo centinaia di cittadini stranieri e di giapponesi delle isole maggiori – per me è importante aver trovato un posto dove pur restando in Giappone, paese che amo e dove ho messo su famiglia, mi allontani da Tokyo e dall’incubo nucleare. Il governo ha previsto sussidi e contributi più che decenti a chi si vuole trasferire: circa 20mila euro una tantum, la metà dell’affitto per i primi tre anni e sconto del 20 per cento nei negozi alimentari. A me va benissimo, e pazienza se per strada incontrerò qualche militare in più. Io non sono in guerra con nessuno”.