Cultura

Ferrara e la poesia. Vintage lirico nel mondo globalizzato

È uscito per Edizioni Kolibris ‘I poeti del Duca. Excursus sulla poesia contemporanea a Ferrara‘, a cura di Matteo Bianchi, con una nota di Monica Farnetti. L’antologia, patrocinata da Provincia, Comune e Camera di Commercio ferraresi, è scaturita dal tentativo appassionato di un giovane critico e di una giovane editrice, trasferitasi da Bologna, di fare il punto della situazione, di pubblicare il primo spaccato lirico della città estense.

Matteo Bianchi, difatti, ha introdotto con un saggio una selezione di inediti delle venticinque voci – a suo discernimento – più significative di Ferrara, voci liriche che appartengono alle ultime due generazioni. I venticinque autori, o i loro cari, invitati dal curatore ad affidargli gli inediti sono, dall’indice alfabetico: Angelo Andreotti, Carla Baroni, Arnaldo Benatti (1941-2005), Emanuela Calura, Riccardo Corazza, Roberto Dall’Olio, Chiara De Luca, Lamberto Donegà, Giuseppe Ferrara, Claudio Gamberoni, Patrizia Garofalo, Carlo Gardenio Granata, Rita Montanari, Alessandro Moretti, Giorgio Palmieri (1947-2010), Monica Pavani, Matteo Pazzi, Roberto Pazzi, Edoardo Penoncini, Jean Robaey, Eleonora Rossi, Paola Sarcià, Filippo Secchieri (1958-2011), Gian Pietro Testa, Giovanni Tuzet.

Tratti peculiari della pubblicazione, oltre ai versi destinati alla tragedia del recente terremoto dell’Emilia, registrati sotto pelle da svariati autori, tra i quali Eleonora Rossi e Roberto Dall’Olio, sono le radici variabili dei poeti stessi, di cui larga parte non è autoctona, bensì nata altrove e trasferitasi dentro le mura per ragioni di studio, lavoro o famiglia, come il belga Jean Robaey, dalle origini più distanti. O altri che sono andati e tornati dalla città per carriera, tra cui Roberto Pazzi, Gian Pietro Testa e Giovanni Tuzet (European Poetry Prize 2011). Questo ha permesso un andirivieni padano, un meticciato ducale che ha fatto risaltare ancora di più i lineamenti locali, mescolandoli al contempo con quelli stranieri e aprendo le barriere culturali a discapito di quelle architettoniche. Inoltre sono stati letteralmente portati alla luce gli inediti di tre cari estinti, Benatti, penna internazionale degli haiku, Palmieri e Secchieri, i quali non ebbero, a detta del curatore, l’attenzione critica che meritavano.

Come scritto da Monica Farnetti nel quarto di copertina: “Atto civico e gesto d’amore, questo libro ci persuade che si può fare città con la memoria dei poeti, le cui vive parole evocano, mentre lo pretendono, uno spazio civico entro il quale garantirsi circolazione e risonanza. Ricostruire un tratto della tradizione poetica di Ferrara è dunque ripensare la sua storia e ridisegnare la sua mappa, impegnandosi con rinnovato fervore all’antico progetto della città ideale. Sono i poeti, del resto, ad allestire con precisione imperitura lo spazio in cui prende forma la vita che riconosciamo come nostra: tracciando le vie, modellando le piazze, erigendo le mura e seminando gli orti e i giardini intra moenia in cui si conservano i nostri affetti e le nostre memorie. E sono loro che nel tempo rendono pensabile, e per ciò stesso vivibile, questa nostra secolare, struggente e complessa vicenda pentagona.”

E sempre dalla fu dimora degli Estensi, vorrei chiudere questo breve post poetico con Cristiano Mazzoni, già autore, nel 2011, di ‘Batiguàza. Resoconto di un’adolescenza’ (Este Edition), memorie di avventure adolescenziali in un quartiere di Ferrara. Mazzoni, omonimo ma non parente del sottoscritto, prima che qualche lettore pensi che voglia fare pubblicità a cugini, fratelli, zii, nipoti, ha scritto tantissime poesie, pensieri liberi, veloci postille, tratteggi letterari semplici e diretti per raccontare una Ferrara che in parte non c’è più, una città di provincia, fiera della sua identità, della sua lentezza, dei suoi riti.
Elemento della “ferraresità” per eccellenza individuato dall’autore (e mi ritrovo d’accordo con il mio omonimo) è la Spal
Laggiù nel profondo della borgata dietro ai muri del pianto, tra i marciapiedi sconnessi, le ringhiere arrugginite, i vasi da fiori con cadaveri di gerani rinsecchiti, pullulavano in allegra compagnia i virus della vita, gli anticorpi della virtù combattevano con i batteri del vizio. Una danza taoista dove il bene ed il male si schizzavano a vicenda con macchie di inchiostro indelebile, nella perenne ricerca di sopraffarsi, l’uno con l’altro. La domenica accomunava tutti, i blasfemi ed i pii, i poveri ed i meno poveri, in un piatto di cappelletti galleggiante in un mare nostrum di brodo con o senza occhi. 
La domenica veniva santificata dal calcio, chi dalle radio a transistor, chi dalle gialle radio apribili in due metà, chi, la maggioranza, compiendo la transumanza, a piedi, in bicicletta o motorino verso il tempio, andando con un misto di euforia e consuetudine “alla Spal”. I vecchi tutti con il cuscino bicolore sotto al braccio, i giovani con le bandierine con il cerbiatto e la data di fondazione, i bambini con la sciarpa di lana della nonna fatta con i ferri. La borgata era un mondo semplice, dove le poche certezze erano la Spal e un piatto di cappelletti. In brodo.”