Il teatro MC93, alle porte di Parigi, freme d’impazienza. A l’affiche, per soli quattro giorni, c’è Toni Servillo, regista e attore protagonista de “Le voci di dentro”, di Eduardo de Filippo. Osannato dalla platea parigina, che la scorsa primavera s’è lasciata incantare dal fascino decadente di Jep Gambardella, Toni Servillo, all’indomani della vittoria ai Golden Globes, e alla vigilia della nomination agli Oscar, rientra ormai a pieno titolo nelle star nazionali che la Francia ci invidia. La platea, tuttavia, brulica soprattutto di voci italiane, per la venuta di Servillo, evento tra i più significativi nell’agenda culturale francese per la comunità di espatriati oltralpe, soprattutto quando Toni va in scena insieme a Beppe, il fratello, nelle parti, rispettivamente, di don Alberto e don Carluccio Saporito.
Creata a Milano, nel 1948, esattamente 65 anni fa, “Le Voci di Dentro” è stata scritta da de Filippo in pochi giorni, di getto, quasi “per necessità”, dice Servillo, “com’è proprio di un grande attore”. E proprio nel suo carattere “improvvisato”, in questo suo scrivere quasi un canevaccio, de Filippo, autore imbevuto, suo malgrado, di realismo, compone una delle sue opere più amare e finalmente decide di lasciare spazio al surreale, all’assurdo, senza scivolare nelle maschere e nei costrutti pirandelliani.
Napoli getta la maschera folkloristica di città chiassosa, si tinge di humor nero e assurdità. La luce non è quella accecante del sole sul bucato steso tra i vicoli, ma quella che filtra dagli scuri, rischiarando un realismo mescolato al paradosso, che ha inizio in casa Cimmaruta. Qui si ritrovano, un mattino, di prima ora, i due fratelli Saporito, “apparatori di feste locali”, mestiere ereditato del defunto padre Tommaso. E qui don Alberto accusa la famiglia tutta dell’omicidio di Aniello Amitrano, con tanto di corteo di forze dell’ordine. Per poi cadere vittima del dubbio e rendersi conto, probabilmente, che quel delitto l’ha solo sognato. Da qui in poi, il sogno entra di prepotenza in scena, agisce come detonatore di impulsi e meschinità e diventa il demiurgo di un teatro dell’immaginario dove, le visioni, gli incubi, le allucinazioni producono la realtà, e non il contrario.
Dalla comicità agrodolce delle battute, emerge tutta la difficoltà del tirare a campare quotidiano, della diffidenza nei confronti dell’altro, della paura costante di “essere nominato”. Principale bersaglio è la famiglia rispettabile, quella dei Cimmaruta, ma anche la dubbia solidarietà tra i fratelli Saporito, che, dietro una facciata di decenza, nasconde un opportunismo senza vergogna e una banalità che si scopre mostruosa.
I personaggi nascono nello sbadiglio del mattino, come la cameriera Maria, che si presenta dormiente all’apertura del sipario, il portiere, che ricorda i suoi sogni di gioventù, “belli come operetta di teatro”, Don Pascale, assediato dall’insonnia. La storia stessa sboccia quando si scende dal letto, ci si guarda intorno con una tazza di caffè in mano e ci si avventura in un’altra giornata senza pretese, finché non s’inceppa un meccanismo e ci si ritrova a vivere la parte di un folle, a portare avanti un sogno, senza rendersene conto. È mai possibile che “uno passa un guaio mentre dorme”, si chiede don Alberto? Il sogno diventa una tela di fondo alla pasta riscaldata servita per colazione, alla catasta di sedie nel retrobottega di casa Saporito, agli sputi di disgusto di Zi’ Nicola, che si esprime con i fuochi d’artificio perché “siccome l’umanità è sorda, lui può essere muto”. È lui, forse, il cuore della commedia e, nascosto dietro una tenda, simboleggia la fatalità della legge per cui l’uomo è destinato a essere incompreso dai suoi simili. Come scriveva Cesare Garboli, infatti, i personaggi di de Filippo non sono eccezioni, ma regole deformate, rotte dal non-senso, uccise da una cicatrice lasciata di traverso sul viso, semplici specchi del pubblico in platea.
Prima della meritata ovazione agli attori, il sipario si chiude sul minuto forse più intenso dell’intero spettacolo. I due fratelli Saporito, ai lati opposti della scena, si guardano negli occhi. Don Carluccio, alla fine, s’addormenta, serafico, mentre Don Alberto resta inerme, con gli occhi sgranati. “Il pensare stanca più dell’agire stesso”, aveva dichiarato nel primo atto, ma il sonno per lui non s’intravede e, nonostante la fatica, resta in balia della veglia più crudele e dell’insonnia più becera, quella del cuore affranto e, purtroppo, fin troppo lucido.
di Valeria Nicoletti