Come un sogno ricorrente, l’azione-ritornello di Nebraska è la fuga di un padre vecchio e un po’ demente da svariati letti-capezzali, in barba al figlio che dorme e non si accorge mai di nulla. E che al suo risveglio lo va a cercare, in macchina, trovandolo tenacemente in cammino, verso la terra promessa dell’agognato riscatto. L’ultimo film del 52enne Alexander Payne è anche un’educazione alla perdita dell’anziano genitore per il gentile e passivo David Grant, figlio quarantenne di Woody (Bruce Dern, premiato a Cannes), padre alcolista, silenzioso e con l’Alzheimer di cui ci si chiede spesso “quanto gli sarà rimasto da vivere”. Aprire gli occhi e non trovare più il proprio papà, che sgrullo e andato quanto si vuole era presente, era lì, fisicamente, fino a un minuto prima, è una specie di premonizione con cui fare i conti. Anche quelli che non si sono fatti nel corso degli anni.
Nel film Woody, che non ci sta più con la testa, si è convinto di esser diventato milionario prestando fede a una pubblicità-truffa, di quelle che con l’esca dei soldi vogliono in verità spillartene. Questo è chiaro a tutti: alla sua sferzante, pragmatica e scurrile moglie, al figlio Bob che ha “preso” più dalla madre e fa il giornalista televisivo, e a David, che invece ha preso più da Woody ed è un uomo dimesso e con zero ambizioni. Woody però ci vuole credere, a quel denaro, e si mette in testa di andare a Lincoln per ritirare “il suo premio” partendo a piedi dal Montana al Nebraska. Ovviamente David lo accompagnerà su quattro ruote. Sostenendo in parte la sua illusione, in parte cercando di arginarla. Inizia così un viaggio che li porterà anche nella città natale di Woody, che farà ritrovare un’empatia perduta tra i due e risvegliare un senso di protezione del figlio nei confronti del padre.
Girato in bianco e nero, con luci delicate e naturali nei panorami esterni, nutrito degli ambienti della mai troppo decantata provincia americana (dove anonimi bar, locali-karaoke, case di legno con veranda fanno così tanto “set” da rifiutare qualsiasi artificio aggiunto), il tutto frammisto di quadri notturni che richiamano le solitudini di Hopper, Nebraska ha la sua forza soprattutto nella consueta, per Payne, buona sceneggiatura che si snoda in essenziali dialoghi, capaci di sviluppare il rapporto tra i due protagonisti senza forzature e con grazia. Come sempre in Payne le relazioni tra i personaggi e il loro percorso interiore sono il perno su cui poggia saldamente il film, ma in questo caso il regista di Paradiso amaro è attratto anche dalla stilizzazione, sia dei comprimari – in una direzione che può ricordare i fratelli Coen (il cattivo del paese è un personaggio alla John Goodman e i cugini “porcini” sembrano figuranti di Arizona Jr) – che delle inquadrature, spesso veri e propri tableux vivant surreali (la famiglia che guarda la tv, la frontalità astratta, sospesa, di certe immagini), che di alcune scene, come la gag del compressore “recuperato”.
Svagato e indolente (come alcuni Jarmush), Nebraska mette in campo un realismo lirico, in cui i dialoghi mostrano la coriacea fragilità di un vecchio e lo spaesamento di un figlio, facendo lentamente sgorgare dalla vertigine del non detto e da una “normalità” silente, assurda e incongrua, i sentimenti altrimenti sopiti. Il rapporto tra due generazioni, in cui quella anziana ha “fatto” – guerre, famiglie, piccole imprese – e ha vissuto senza porsi domande ma sfogandosi con tante bottiglie di alcol, e quella giovane indecisa, problematica, un po’ persa, ha il suo risvolto nel risarcimento finale di un figlio verso il padre ma pure nell’ereditarne un lato attivo, con una ritrovata riscossa vitale.
Se vogliamo vedere un piano simbolico, il segno è forse l’inquadratura del monte Rushmore, visto dall’autostrada, desacralizzato e in lontananza: per Woody sembra che non l’abbiano finito, solo Washington è vestito, a Lincoln manca addirittura un orecchio. Ovvero, forse anche l’illusione americana (del denaro, della vittoria, del riscatto) è un incompiuto. Così come l’educazione dei figli e i tanti vuoti nei rapporti. Ma i film di Payne, e Nebraska non è escluso, sono storie per cui non solo non ha gran senso scomodare simboli o metafore, ma è addirittura ingeneroso. In questo lieve e cullante racconto, vita e morte, legami e sentimenti, illusioni e frustrazioni sono ciò che conta e il saperli narrare con sguardo attento è la qualità distintiva del film.