Giustizia & Impunità

Cosche a Milano, malato ai domiciliari traffica coi narcos. Flachi torna in carcere

A febbario il boss viene condannato a 20 anni per 'ndrangheta. Subito torna a casa perché malato. A dicembre finisce in un blitz della Finanza che indaga su un narcotrafficante del Montenegro. Arresto non convalidato per lui. Questo, però, non preclude al ritorno in galera come chiesto e ottenuto dal procuratore aggiunto Laura Barbaini

Condannato per mafia, ma messo ai domiciliari perché malato di cancro. Quindi riportato nel carcere di Opera. Motivo: durante gli orari di visita, al posto di andare in ospedale “si muove autonomamente e non in carrozzina” incontrando un narcotrafficante dell’ex Jugoslavia in un bar di viale Jenner a Milano. Il suo nome sta nella storia della ‘ndrangheta in Lombardia. Perché Giuseppe Flachi, classe ’51, detto don Pepè, tra gli Ottanta e Novanta è stato uno dei colonnelli dell’eroina. Grazie all’alleanza con il superboss Franco Coco Trovato si è accomodato ai tavolini più esclusivi della mafia spa sotto al Duomo. Nel 2009 riottiene la libertà perché affetto dal morbo di parkinson. Due anni dopo viene nuovamente arrestato dalla Procura di Milano. E’ l’indagine Redux-Caposaldo che svela il cosiddetto racket dei paninari e inquietanti rapporti tra gli uomini di don Pepè e alcuni esponenti politici del comune.

RAPPORTO CON IL NARCOTRAFFICANTE MONTENEGRINO
Nel febbraio 2013, il tribunale di Milano lo condanna a 20 anni e 4 mesi. Poche settimane dopo, però, il boss ottiene i domiciliari. La misura alternativa gli viene concessa perché possa curarsi una grave forma di tumore alla clinica milanese Pio X. Flachi così torna nel suo appartamento di Bruzzano in via Casarsa. E da qua, piuttosto che seguire le cure dei medici, riprende a giostrare gli affari criminali. Tanto che durante le due ore concesse dal tribunale per recarsi dai medici incontra Milutin Tiodorovic, broker della cocaina di origini montenegrine arrestato il 12 dicembre 2013 dal Gico della Guardia di Finanza assieme ad altre otto persone. Tra queste c’è pure don Pepè. Anche per lui il pubblico ministero Ester Nocera chiede il carcere. L’accusa: spaccio. Sul boss della ‘ndrangheta pesa il capo 1 del fermo, dove si racconta di 170mila euro che la sua organizzazione deve al trafficante. Il giudice per le indagini preliminari, però, non convalida l’arresto di Flachi (che resta comunque indagato) perché non ritiene sufficientemente motivato il fatto che quello sia un debito di droga. Flachi fa qualche giorno a San Vittore e poi torna a casa.

IL PROCURATORE: “FLACHI UN PERICOLO PER LA COLLETTIVITA’, TORNI IN GALERA”
Il 19 dicembre 2013 il procuratore aggiunto Laura Barbaini, rappresentante dell’accusa nel processo d’appello Caposaldo, legge gli atti e immediatamente chiede l’aggravamento della misura per Flachi, il quale, ragiona il magistrato, in seguito agli arresti domiciliari “ha rinsaldato i rapporti con esponenti di vertice della criminalità in funzione di una ripresa del traffico di droga”. Non solo: può essere accusato di evasione. Irrilevante, poi, il fatto che per Flachi il fermo non sia stato convalidato. A contare, secondo la dottoressa Barbaini, sono gli incontri fotografati tra il boss della ‘ndrangheta e il trafficante serbo. Da qui, la richiesta di una nuova traduzione in carcere, “visto che la misura in atto degli arresti domiciliari” appare “inadeguata a salvaguardare le esigenze di tutela della collettività in relazione alla pericolosità sociale di Giuseppe Flachi”. A corredo il procuratore aggiunto allega il fermo di Tiodorovic. Il 20 dicembre 2013 la Corte d’Appello accoglie la richiesta. Don Pepè così torna in carcere. Questa mattina si è celebrata la seconda udienza del processo d’appello. Il boss ha assistito alla requisitoria del pg in barella accompagnato dal personale del 118.

LA COCA E IL DEBITO
L’indagine per droga inizia seguendo l’attività milanese di Tiodorovic, ex militare serbo che si appoggia a pericolosi trafficanti di Belgrado. Già nella primavera del 2013, emerge il debito di 280mila euro. “Tiodorovic – si legge nelle prime annotazioni – ha ceduto non meno di sei chilogrammi di cocaina alla compagine criminale capeggiata da Giuseppe Flachi”. La consegna avviene “in due tranches”. Mentre una parte dei sei chili “veniva destinata allo spaccio operato nella zona di Bruzzano da un nipote di Flachi”. Inizialmente i contatti diretti con il montenegrino sono tenuti da Carlo Testa e Santo Crea (arrestati), quest’ultimo imparentato con don Pepè.

Dell’intera somma dovuta, gli uomini del boss calabrese devono ancora pagare 170mila euro. Soldi che non arriveranno mai. L’intera trattativa viene monitorata in diretta dagli uomini del Gico. Tiodorovic parla prevalentemente con Testa ed è lui a garantire l’interessamento di Pepè nell’affare. Fin da subito il serbo vorrebbe incontrare il boss “ma – dice – l’unico motivo perché non vado è perché non voglio che mi fanno foto con Pepè”. Alla fine, i militari fotografano ben due incontri in un bar vicino a piazzale Maciacchini.

IL BROKER DELLA DROGA E IL LEADER DEI NEONAZI
L’insoddisfazione del montenegrino e il rischio che, grazie ai suoi appoggi con i soci di Belgrado, possa scatenare una guerra contro il clan Flachi, emerge da una lunga conversazione intercettata nell’auto che Tiodorovic ha utilizzato per andare in Austria dove ha programmato nuovi traffici. “Questa gente – dice riferendosi all’incontro austriaco – se ce la giochiamo bene”. In auto con lui c’è Domenico Bosa detto Mimmo Hammer (non indagato) figura nota all’interno del movimento neonazi milanese.

Quindi la conversazione si sposta sul debito di Flachi. “Io allora se non me lo paga gli vado addosso comincio a sterminare, se comincio a fare la guerra non è una cosa bella io intanto lunedì chiamo Carlo (Testa, ndr) e gli dico: fammi un appuntamento con il vecchio”. Quindi butta lì un’alternativa: “Gli dico (a Pepè Flachi, ndr): preferisci fare in contanti o mi fai queste robe che io ti chiedo?”. Traduce il pubblico ministero: “Eseguire due o tre omicidi commissionati dall’indagato serbo”. Ecco il ragionamento del serbo: “Vuoi fare affari con me? C’è da tirare giù (uccidere, ndr) questo questo e questo allora sono due? Con due sei a posto con 3 ti metti 100 mila euro in tasca cosa vuoi fare?”.

LE INTERCETTAZIONI, “TUTTI QUESTI CALABROTTI DEL CAZZO”
Prima di andare dal “vecchio “ (Flachi, ndr), Tiodorovic spiega a Bosa cosa vuole fare: “Io prima di andare mi acchiappo il cugino suo me lo lego e me lo porto, poi vado dal vecchio”. Per questo chiede a Mimmo Hammer se ha un posto dove tenere qualcuno. Prosegue: “A proposito quello che mi risponde lui cugino già sarà torturato e avrò delle risposte”, perché “a me non me ne fotte un cazzo che vado addosso (…) Flachi, tutti questi calabrotti del cazzo sono meno pericolosi di questa gente qua (chi sta a Belgrado, ndr)”. Ecco allora il ragionamento conclusivo di Tiodorovic: “I soldi me li devono dare e basta. Devono vendere le case, devono vendere le madri, devono vendere le mogli, comincio a sequestrargli le mogli, i figli tutto quello che hanno a me non me ne fotte un cazzo dei discorsi italiani che le mogli non si toccano le mogli degli infami si toccano”.

IL PROGETTO DI SEQUESTRARE QUELLO CHE STA A OPERA
In attesa di sanare il debito, il serbo e gli uomini di Flachi parlano anche di altro. Le intercettazioni così fissano il progetto di rapire un calabrese che sta ristretto nel carcere di Opera. Ne parla Santo Crea: “Quel lavoro la! Niente? l paesani miei li volete?”. Risponde il montenegrino: “Gliel’ho detto a Gino io, perde 100 mila euro. Lo vede ogni giorno, come esce da Opera lo preleviamo”. Santo Crea annuisce: “Lo so dov’è, vanno sempre con due persone, i calabresi fanno sempre la stessa via”.

LA MATTANZA DI QUARTO OGGIARO E L’AMBIENTALE SULLA PISTOLA
Il progetto del rapimento di un calabrese recluso nel carcere milanese rende necessario il fermo eseguito con successo dal Gico. L’inchiesta è durata poco meno di un anno e nel novembre 2013 s’incrocia con quella condotta dalla squadra Mobile che indaga sulla mattanza di Quarto Oggiaro per la quale il 5 dicembre 2013 viene arrestato Antonino Benfante, ritenuto responsabile di tutti e tre gli omicidi. Due vittime sono i fratelli Tatone ras dello spaccio nel quartiere. Dopo l’esecuzione di Emanuele Tatone, ucciso il 27 ottobre agli orti di Vialba, i primi accertamenti riguardano proprio i luogotenenti del clan Flachi. Due di loro, infatti, attraverso l’analisi del gps pochi giorni prima risultano presenti nella zona del delitto. Dall’ambientale piuttosto confusa sembrano discutere di “fare fuori qualcuno”. La pista, però, si mostra sterile.

Qualcosa di più emerge a proposito della pistola utilizzata da Benfante. Ad oggi l’arma non è ancora stata ritrovata. Il 30 novembre 2013, a pochi giorni dall’arresto di Benfante, due uomini parlano in auto. Uno di questi è Roberto Scirocco (anche lui arrestato il 12 dicembre 2013 dal Gico). Con il suo interlocutore discute di una pistola (una 357 magnum). “Che c’e qua?”, dice G.M. Scirocco risponde: “Pistola, l’uovo di pasqua. lo vuoi l’uovo ?”. L’altro lo avverte: “Stai attento”. Ragiona il pm: “Roberto Scirocco è un personaggio pienamente inserito nella cosca Flachi a cui presta la sua totale disponibilità”. Il nome di Scirocco così finisce anche sotto la lente della squadra Mobile.

Scattano intercettazioni incrociate. Tanto che il 9 novembre 2013, quando già Benfante è ufficialmente indagato per gli omicidi, dalle ambientali emerge l’esistenza di una seconda pistola. Si tratta di una 357 magnum a tamburo, un calibro molto comune, lo stesso che ha ucciso agli orti di via Vialba. Si comprende che quest’arma è di proprietà di un parente di don Pepè. Scirocco conferma e dice: “L’ho presa io, ce l’ho io imboscata, ma ti rendi conto ieri sono andato a prenderla me l’hanno data così chiusa e io ho l’ho messa in un altro asciugamano e l’ho nascosta”. G.C. chiede se sia un’automatica. Scirocco risponde: “A tamburo la 38”. Annota il pubblico ministero: “In merito all’arma in questione, G. C. spiegava di aver ammonito il parente di Flachi (vero titolare dell’arma) in merito ai rischi che correva per la sua detenzione. In particolare suggeriva di verificare se la pistola fosse stata usata per commettere eventuali reati in precedenza. Ciò perché, qualora l’indagato fosse stato trovato in possesso dell’arma, le pene sarebbero state ben più pesanti se un successivo riscontro avesse dimostrato il coinvolgimento della stessa per altre azioni delittuose”. L’ambientale in auto è chiarissima: “Gli ho detto: l’hai fatta controllare perché non vorrei che da una minchia ne vai a pagare 150 minchie, capito, perché ti fermano, sai che è un anno di carcere ma se ha i danni…”.