Oggi si parla sempre più frequentemente, quando si ragiona di Terzo settore, di RSI (per i non addetti ai lavori, responsabilità sociale d’impresa).
La Commissione Europea, nel 2001, ha definito l’RSI come “L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate”. Di che si tratta? Le imprese oggi sono chiamate a pensare non solo al profitto odierno, ma a tener conto anche del loro “impatto sulla società”, ossia del benessere di lungo periodo del territorio sul quale lavorano: in termini di tutela dell’ambiente (sia per quanto riguarda il proprio operato, sia quello dei fornitori prescelti), di risorse umane (formazione del personale, orari flessibili, agevolazioni per madri lavoratrici, integrazione di lavoratori disabili), ma anche di welfare e di servizi per i cittadini (scuole, cultura, sport, giovani talenti, volontariato aziendale, sostegno alle Associazioni non profit che lavorano sul territorio).
E’ proprio questo aspetto, lo scambio e la collaborazione delle imprese con le migliori realtà non profit, che interessa il Terzo settore, che ha perso i contributi pubblici ed è stato costretto a rivedere, in un processo di maturazione, le diffidenze nei confronti del profit. La responsabilità sociale rappresenta oggi il trait d’union, il possibile riavvicinamento tra profit e non profit.
Ma come incentivarlo? Unioncamere ha condotto più di un’indagine in Italia sull’atteggiamento delle imprese nei confronti del loro “impatto sociale”, e ha constatato che troppe imprese ne hanno scarsa conoscenza e temono che si tratti di un lusso che non possono permettersi. La mia esperienza di raccolta fondi mi dà la stessa sensazione.
Nel cercare di indurre le imprese, anche medie e piccole, ad agire conformandosi a criteri di responsabilità sociale, Unioncamere Piemonte, ad esempio, ha messo l’accento sui tangibili vantaggi delle imprese, che consentono loro di essere competitive sul mercato. L’azienda responsabile gode infatti di un migliore clima aziendale e beneficia di una più forte motivazione dei dipendenti; viene percepita positivamente dalla comunità locale; migliora la fidelizzazione dei clienti e la propria reputazione; infine, trova più facilmente finanziamenti e credito.
Se le camere di Commercio stanno lavorando in modo eccellente nella sensibilizzazione delle imprese, e nell’organizzazione di convegni e incontri che presentano esempi di buone prassi alle imprese del territorio, occorre però anche chiedersi quale possa essere il ruolo del cittadino in questo processo virtuoso. Per fare un esempio, quanti di noi hanno smesso di acquistare prodotti di ditte di cui era nota la prassi di sfruttare il lavoro minorile nei paesi poveri? Molti, spero. Ma forse ancora troppo pochi.
C’è, nello sviluppo di quest’attenzione, un potente e ancora non abbastanza praticato modello di opposizione al cieco consumismo. C’è un potere che avremmo e non usiamo, per pigrizia.
Cosa bisogna fare? Informarsi su ciò che acquistiamo e desideriamo, e poi comportarsi coerentemente, può essere un utile strumento per stimolare le imprese a intraprendere la via della responsabilità sociale; e per potenziare il loro interesse per gli enti non profit che lavorano sul medesimo territorio. Che ne pensate?