I tagli alla sanità hanno dato una sistemata ai conti. Ma ora il rischio è che in diverse regioni i cittadini non ricevano più le cure di cui hanno bisogno. A lanciare l’allarme è il rapporto Oasi 2013 (Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano), presentato all’università Bocconi di Milano dal Cergas (Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale). I tagli lineari hanno avuto conseguenze in particolare su posti letto, assunzioni e stipendi del personale, spesa per i farmaci e servizi offerti. E così, soprattutto nelle zone del Sud Italia, si iniziano a manifestare situazioni di under treatment, che comportano la difficoltà di far fronte alle necessità sanitarie della popolazione.
La riduzione di spesa è stata applicata infatti a un sistema sanitario che è tradizionalmente “sobrio”, secondo la definizione utilizzata nel report: in Italia, infatti, la spesa pro capite a parità di potere d’acquisto è di 2.419 dollari, meno dei 3.318 della Germania, dei 3.133 della Francia e dei 2.747 del Regno Unito; tutti Paesi che hanno parametri paragonabili al nostro. Da un lato le sforbiciate hanno abbellito i numeri di bilancio. Il disavanzo del sistema sanitario nel 2012 si è attestato a 1,04 miliardi di euro, pari allo 0,9 per cento della spesa sanitaria pubblica corrente (nel 2004 era il 6,2 per cento). La riduzione della spesa ha portato a risultati giudicati “notevoli” in particolare nelle regioni che, a causa dei loro conti in rosso, hanno dovuto adottare un piano di rientro. Il disavanzo della Campania, per esempio, nel 2012 si è ridotto a un decimo di quello del 2005, quello del Lazio a un quinto e quello della Sicilia si è sostanzialmente azzerato.
Ma dai tagli alla sanità pubblica conseguono tutta una serie di effetti che preoccupano i ricercatori del Cergas. La riduzione di spesa è stata innanzitutto accompagnata da un forte contenimento degli investimenti per il rinnovo e lo sviluppo tecnologico e infrastrutturale. Un fenomeno che secondo il rapporto rappresenta “un’ipoteca sul futuro e un implicito debito sommerso che emergerà in maniera progressiva nel momento in cui risulterà sempre più visibile l’obsolescenza delle strutture e delle tecnologie del sistema sanitario nazionale”. Se tali conseguenze negative arriveranno tra qualche anno, già oggi diversi cittadini si trovano a fare i conti con le prime difficoltà, visto che “il raggiungimento degli equilibri di bilancio non è andato di pari passo con la capacità di rispondere ai bisogni e di erogare servizi in maniera produttiva ed appropriata”. In particolare Abruzzo, Campania, Calabria, Lazio, Molise, Puglia e Sicilia, ovvero le regioni sottoposte al piano di rientro, “risultano inadempienti o parzialmente inadempienti” nel mantenimento dei livelli essenziali di assistenza. Tale situazione è resa ancora più problematica dalla crisi economica, che ha reso difficile per i pazienti spostarsi da una zona all’altra per ricevere le cure.
Alla riduzione della spesa pubblica per la sanità, inoltre, non è corrisposto un aumento della spesa privata: nel 2012 gli italiani hanno speso per la propria salute il 2,8 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Se la media italiana è di 463 euro pro capite, ma le differenze lungo la Penisola sono notevoli: si va dai 707 euro del Trentino Alto Adige ai 239 euro della Campania. Ancora una volta le regioni più in difficoltà sono quelle meridionali, che già subiscono un gap di efficienza nel servizio pubblico. Da ciò, secondo il rapporto, deriva “il sospetto che, soprattutto nelle regioni sottoposte a misure più drastiche di contenimento della spesa, inizino a manifestarsi situazioni di under treatment”. “I cittadini riscontrano problemi di accessibilità alle cure – accusa Tonino Aceti, coordinatore nazionale della rete Tribunale per i diritti del malato -. Negli ultimi anni ci si è preoccupati troppo, se non esclusivamente, di fare quadrare i conti, senza che tale opera ragionieristica sia stata accompagnata dalla necessaria riorganizzazione e riqualificazione del servizio sanitario”.
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