Il procuratore aggiunto di Milano depone al quarto processo sull'eccidio in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, riaperto grazie alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Il magistrato rivela che il coinvolgimento del killer di Brancaccio emerse già nel '94
Sulla strage di via D’Amelio fu subito chiaro che il pentito “Scarantino raccontava ‘fregnacce’ pericolose“. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini depone davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta dove si tiene il quarto processo per la strage del 19 luglio del ’92 dove vennero massacrati il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta, e sul depistaggio che per vent’anni ha nascosto la verità su quella mattanza avvenuta 57 giorni dopo Capaci.
La Boccassini fin da subito non credette alla ricostruzione del balordo della Guadagna. Tanto che il 12 ottobre del 1994, prima di lasciare Caltanissetta, scrisse una lettera all’allora capo della Procura Giovanni Tinebra, insieme al collega Roberto Sajeva, in cui esprimeva pesantissimi dubbi sull’attendibilità del pentito. Ma il procuratore aggiunto di Milano rivela anche un altro dettaglio: “Tramite l’analisi dei cellulari già nel giugno del 1994 uscì fuori l’utenza di Gaspare Spatuzza nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Fino ad allora c’erano collegamenti che potevano portare allo spunto investigativo che ora si persegue”. Insomma, già due anni dopo la strage c’erano già elementi importanti per puntare sulla direzione giusta. Ma dovranno passare 14 anni prima che le false verità, passate in giudicato per tre volte, inizino a sgretolarsi.
Boccassini, che tra il ’92 e il ’94 venne applicata alla Procura di Caltanissetta per indagare sulle stragi costate la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ripercorre la storia nera di quei giorni: “Scoprimmo che il 19 luglio del ’92 c’erano telefonate tra Gian Battista Ferrante e Fifetto Cannella e da lì si risaliva a Spatuzza”. U tignusu, che ha cominciato a collaborare con la giustizia nel 2008, ha riscritto la storia della strage di via D’Amelio svelando il depistaggio, che coinvolge i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Calogero Pulci, tra gli imputati del processo, sulla fase esecutiva dell’attentato. Le indagini dell’epoca furono condotte dalla squadra Falcone-Borsellino, un gruppo di investigatori guidato dall’ex capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera che aveva l’incarico di fare luce su Capaci e via D’Amelio. Grazie alla collaborazione del killer dei fratelli Graviano la Procura nissena coordinata da Sergio Lari ha potuto ricostruire le fasi preparatorie dell’eccidio e scagionare i sette innocenti accusati da Scarantino, Pulci e Andriotta.
E il procuratore aggiunto di Milano in aula torna su quella falsa pista e sui dubbi che fin da subito ha nutrito sul piccolo delinquente. “Quando arrivai a Caltanissetta da parte di tutti c’erano perplessità rispetto alla caratura del personaggio Vincenzo Scarantino – dichiara Boccassini -. Ricordo perfettamente che si trattava di dubbi nutriti non solo dai magistrati ma anche dagli investigatori”. Al dibattimento, che si tiene davanti alla Corte di Assise del capoluogo siciliano, sono imputati di strage i boss Salvino Madonia e Vittorio Tutino e di calunnia i falsi pentiti Calogero Pulci, Vincenzo Scarantino e Francesco Andriotta, autori di un clamoroso depistaggio. “Scarantino – ha raccontato il procuratore – dal carcere faceva arrivare messaggi tramite la polizia penitenziaria. Accennava alla possibilità di parlare, poi si tirava indietro. Oscillava. Fino a giugno quando ci fu la ciliegina finale, decise di collaborare e andammo a Pianosa a sentirlo”.
Sembrava già tutto chiaro vent’anni fa. “Per me la prova regina che Scarantino era un mentitore si è avuta proprio quando ha cominciato a collaborare. La sua collaborazione mi ha convinto che eravamo davanti a uno che raccontava ‘fregnacce’ pericolose perché coinvolgeva anche importanti collaboratori di giustizia”. Che in ogni confronto sbugiardavano il falso pentito. Scrivendo al capo della Procura Tinebra, il magistrato fece presenti le lacune e le bugie presenti nelle parole del falso pentito che, parlando della riunione preparatoria dell’attentato a Borsellino, aveva raccontato della presenza di mafiosi poi pentiti come Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, non riuscendo però a riconoscerli in foto.
“Dissi che andava sospeso tutto – ha aggiunto – che dovevamo verificare, avvisare i colleghi di Palermo, fare i confronti e ricominciare con saggezza umiltà ed equilibrio, doti che dovrebbero avere i magistrati”. Parole cadute nel vuoto. Non venne nemmeno convocata, prima del trasferimento del magistrato a Milano, una riunione della direzione antimafia di Caltanissetta per parlare dei suoi dubbi. “Il mio dovere – ha detto riferendosi alla lettera inviata a Tinebra – era mettere per iscritto che si stavano imbarcando in una strada pericolosa“.
Di chi fu allora la colpa per quel depistaggio che compromise le indagini, di Arnaldo La Barbera e i suoi investigatori? Il magistrato lo esclude e più volte ribadisce che “è il pubblico ministero il dominus delle indagini”, “quindi se si è andati avanti per quella strada – ha concluso – gli altri colleghi avranno ritenuto di farlo, sono i pm che a fronte di quelle cose hanno deciso di andare avanti”.