Per la prima volta, una manifestazione a sostegno dei diritti dei richiedenti asilo diventa globale. Da Tel Aviv, dove tutto è cominciato, raggiunge le piazze di New York, Parigi, Londra e altre 13 città del mondo, Roma compresa. A guidare la protesta della capitale israeliana, un gruppo di eritrei, la comunità di profughi più numerosa (sono 36mila). “Dobbiamo imparare ad unirci, questo è l’insegnamento che possiamo trarre da quanto accade in Israele. I rifugiati del mondo ora manifestano insieme”, dice un attivista dell’Eritrean youth solidarity for national salvation, un gruppo internazionale di oppositori al regime eritreo, che vuole restare anonimo.
All’evento partecipano anche esponenti della comunità eritrea più vicini al governo di Asmara: un segno tangibile dell’unità d’intenti del movimento per i diritti dei rifugiati. “Anche in Italia ci sono state delle leggi razziste, non ci sono dei progetti d’integrazione e di reinsediamento nei Paesi d’origine”, continua. La richiesta è la stessa che in Israele: abolire la legge “anti infiltrazione” voluta dal governo di Benjamin Netanyahu. Il provvedimento, approvato a dicembre 2013, rende possibile la detenzione dei rifugiati politici per almeno un anno, senza che ci sia nessun processo. In palese violazione dei trattati internazionali.
Da allora, i profughi che varcano il confine finiscono nel “campo” di Holot, nel deserto del Negev: una prigione a cielo aperto. Il 5 gennaio, data d’inizio delle proteste, Netanyahu ha detto che nel 2013 sono stati rimpatriati in 2.600 migranti. “Minacciano l’identità degli ebrei”, si difende il premier israeliano, che ha iniziato la sua lotta all’immigrazione già a fine 2013. Le organizzazioni internazionali però contrattaccano. “La detenzione prolungata e automatica dei richiedenti asilo è in contrasto con la Convenzione di Ginevra del 1961”: così scrive Amnesty International in una nota rivolta al governo israeliano. Critica anche l’Unhcr: “Poiché la struttura di Holot accoglie persone che non possono essere rinviate forzatamente nei propri paesi d’origine, l’Agenzia è preoccupata che tale struttura possa – nei fatti – tradursi in un luogo di detenzione indefinita, senza possibilità di rilascio”. Secondo i dati dell’agenzia dell’Onu, solo un richiedente su 500 riesce ad ottenere l’asilo politico. Questi i numeri del 2013: su 48.222 profughi arrivati in Israele, soltanto 103 sono in possesso di protezione umanitaria completa e relativi diritti. Una situazione mai vista in nessun altro Paese.
Nel Sinai, porta di ingresso ad Israele, ci sono ancora almeno 250 profughi ancora nelle mani dei trafficanti beduini. Lo afferma l’agenzia Habeshia, l’organizzazione guidata da don Mosè Zerai che offre assistenza a chi cerca di scappare da Eritrea ed Etiopia. “Anche se riuscissero a liberarsi, non saprebbero dove fuggire” spiega il parroco eritreo. Da quando è stato concluso il muro sul confine con la penisola egiziana, il Sinai è diventato una prigione a cielo aperto per i profughi. “Il meglio che possa loro capitare – continua don Zerai – è finire nelle mani della polizia egiziana, che li chiude in celle dove possono aspettare anche mesi senza sapere che ne sarà di loro”. Poi, una volta liberati, ritentano la fortuna, spesso percorrendo una rotta diversa. E con una meta diversa in testa: l’Europa.