“La prima giustizia è la coscienza”, dice Jean Valjean, travestito da monsieur Madeleine, ne ”I miserabili’ di Victor Hugo. Si rivolge a Javert, l’ispettore che incarna la giustizia cieca, testarda e inesorabile. Una prospettiva che è stata spesso l’orizzonte prevalente del dibattito, nel Paese dove da vent’anni si farnetica di una supposta guerra tra politica e magistratura: il futuro della giustizia resta un perno centrale nella vita democratica. E dunque anche della salute dell’Italia: siamo venuti a parlarne con Gherardo Colombo, ex magistrato, scrittore, presidente di Garzanti e membro del consiglio di amministrazione della Rai. Sta lavorando – spiega mentre tenta di salvare una pantofola dalle fauci di Luce, Golden retriever di sette mesi – a uno spettacolo tratto da ‘Imparare la libertà, il potere dei genitori come leva di democrazia’, manuale per educare senza punire, scritto a quattro mani con Elena Passerini (ed. Feltrinelli). Il debutto è previsto per il 24 febbraio a Roma. Sul palco, con Colombo nei panni del professore, ci saranno anche Piotta, il bidello, e due studenti: Sara Colombo, figlia di Gherardo, e Cosimo Damiano D’Amati che è anche il regista.

Dottor Colombo, quando si parla di rapporti tra giustizia e politica, l’obiezione prevalente è che la magistratura si sostituisce alla politica. Nel caso della Consulta sul Porcellum è stato fatto di tutto per evitare la sostituzione, eppure il legislatore è rimasto a guardare nonostante i numerosi moniti e del Colle.
I giudici – di qualunque grado e tipo – hanno il compito di rispondere alle domande che vengono loro rivolte. È stata sollevata, non a torto, una questione di legittimità sulla normativa elettorale: la Corte ha risposto. A Torino la domanda di chiarimento al Tar sulla validità delle elezioni regionali è stata avanzata da uno degli attori politici. Se coloro che esercitano la funzione politica fossero capaci di risolvere le questioni all’interno della propria funzione, la magistratura non dovrebbe intervenire! Esiste, però, un problema di tempi: in queste materie in particolare, le questioni dovrebbero essere risolte in qualche mese, non in qualche anno. Anche se i motivi, molto frequentemente, non possono essere addebitati ai giudici.

L’etica è stata “ristretta” al diritto penale: d’accordo?
Questo è il problema. Non esiste più la responsabilità politica, disciplinare o amministrativa. Tutto va a finire nel processo penale. L’idea che si ha è che tutto quello che non è vietato dalla norma penale va bene. Ma la verifica penale dovrebbe essere l’extrema ratio, arrivare per ultima. E forse, aggiungo, non è la più indicata a risolvere le questioni, perché come effetto ha una sanzione, non l’identificazione di un rimedio che valga in casi analoghi per il futuro.

Nella Prima Repubblica non era così. O era un po’ meno così: non sarà mica “colpa” di Mani Pulite?
Durante la Prima Repubblica molte cose accadevano nell’ombra. Non farei un’apologia di quegli anni: non dimentichiamo la P2, la stagione delle stragi, da piazza Fontana a piazza della Loggia, da Peteano all’Italicus. E poi c’erano meccanismi di autoconservazione del potere estremamente collaudati ed efficienti. Io credo che l’emersione di Tangentopoli sia strettamente connessa alla caduta del Muro di Berlino. L’Italia era un Paese di confine, in cui si era arrivati a un equilibrio basato su “stanze di compensazione”: il potere si salvaguardava nel suo complesso. Cade il Muro di Berlino e finisce quella contrapposizione – da una parte il mondo occidentale, dall’altra l’Unione Sovietica – in cui entrambi i blocchi avevano un interesse forte sul nostro Paese: perciò la violazione delle norme sul finanziamento ai partiti era ampiamente praticata. L’equilibrio salta, e allora per una piccola finestra temporale, abbiamo potuto indagare in un modo impensabile fino a poco prima, perché in un modo o in un altro succedeva qualche cosa che bloccava le indagini. Torno alle inchieste sulle stragi: quale incredibile serie di trasferimenti ha dovuto subire il processo per piazza Fontana! L’ostacolo alle indagini era quasi la prassi, a volte anche con il coinvolgimento della magistratura: è stata la magistratura a fare in modo che il processo di piazza Fontana andasse in giro per l’Italia fino a morire. Anche senza voler pensare alla malafede, i fatti sono questi. Così è successo per la P2, per i fondi neri dell’Iri: se i processi fossero rimasti a Milano, gli esiti sarebbero stati senz’altro diversi.

Il Tribunale di Milano era diverso?
Milano, negli anni delle stragi, della P2 e dei fondi neri Iri rappresentava una delle non frequenti eccezioni rispetto al pensiero corrente in magistratura secondo cui il potere era esonerato dalla verifica giurisdizionale. Se veniva alla luce qualcosa che riguardava persone che gestivano il potere e iniziavano le indagini, nel giro di poco tempo tutto si bloccava. La stragrande maggioranza dei giudici del Dopoguerra si era formata sotto il Fascismo. E quindi, l’atteggiamento era quello al quale si era stati abituati dal regime: in certi cassetti non si guarda. Con il tempo progressivamente le cose cambiano. Viene istituita la Corte costituzionale e questa estromette dall’ordinamento tante norme risalenti a prima della Costituzione; nasce il Csm e si compie un importante passo verso l’indipendenza della magistratura stessa dagli altri poteri dello Stato; c’è un progressivo ricambio generazionale, perché via via che il tempo passa i magistrati che si erano formati sotto il Fascismo vanno in pensione. Torniamo a Mani Pulite: io sono entrato nell’inchiesta – su richiesta reiterata dei dirigenti del mio ufficio, Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D’Ambrosio – nell’aprile del ‘92, due mesi dopo che Di Pietro aveva cominciato le indagini.

A luglio di quell’anno lei rilasciò la famosa intervista a Leo Sisti su L’espresso, in cui proponeva di risolvere la questione evitando la prigione a chi confessava e restituiva il maltolto allontanandosi per un po’ dalla vita pubblica. Lo pensa ancora?
Avevo intuito che quella giudiziaria era una strada senza sbocco. La corruzione era davvero un sistema e sarebbe stato – come in effetti è accaduto – impossibile scoprire e gestire tutto. Non ci sono stime certe, ma il circa il 40% dei processi si è risolto con la prescrizione. Anche oggi penso che la soluzione non poteva essere giudiziaria, che sarebbe stato necessario investire molto a livello educativo.

E la P2?
Il 19 marzo 1980, Prima linea ammazza Guido Galli, di cui ero collega all’Ufficio istruzione. Lo racconto perché in qualche modo c’è un collegamento con l’assegnazione dei processi che riguardano Sindona a Giuliano Turone e a me. Uccidono Guido, dopo aver assassinato un altro collega a Salerno e uno a Roma, e l’Ufficio istruzione di Milano rischia di dissolversi: tanti chiedono e ottengono di essere trasferiti, come volessero scappare. Milano negli anni Ottanta, alle dieci di sera e nei weekend, era deserta: io andavo in giro in moto, quando mi fermavo al semaforo e qualcuno attraversava la strada dietro di me, mi aspettavo un colpo in testa. Avevo paura, avevamo tutti paura, ma in un po’ siamo rimasti. Essendo tra quelli che sono rimasti, i vari processi su Sindona furono assegnati a Giuliano, Gianni Galati e a me. Indagando su Sindona, scopriamo che Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva organizzato il viaggio clandestino di Sindona a Palermo subito dopo l’omicidio di Giorgio Ambrosoli e lo nascondeva in quella città, aveva incontrato ad Arezzo Licio Gelli più volte nello stesso periodo. Poiché Gelli già compariva a più riprese nelle indagini, abbiamo deciso di perquisire i luoghi che frequentava, tra i quali la Lebol – a Castiglion Fibocchi – di cui era dirigente. Era il 17 marzo 1981, ero in ufficio con Giuliano, ed eravamo piuttosto scettici sull’esito dell’operazione. A metà mattina il telefono squilla: è il colonnello Bianchi, che avevamo mandato con i suoi uomini della Guardia di Finanza da Milano a eseguire le perquisizioni, imponendogli di non prendere contatto con i colleghi del luogo perché fosse mantenuta la massima segretezza. Ci racconta che sono stati trovati documenti di rilievo eccezionale aggiungendo, stupefatto, che il comandante generale della Guardia di Finanza lo aveva contattato, dicendogli che nelle liste avrebbe trovato anche il suo nome…

…e non era il solo nome eccellente…
La mattina dopo arrivano le carte, una cosa strabiliante. Ministri, sottosegretari, parlamentari, generali dei Carabinieri, dell’Esercito, della Finanza, il capo del Sismi, il capo del Sisde; i nomi di quelli che avevano depistato le stragi. C’era il nome di Sindona, il nome del generale Massera, coinvolto nel colpo di Stato in Argentina di pochi anni prima. C’erano i nomi di magistrati, imprenditori, giornalisti e via dicendo. Ritenendo necessario che i vertici delle istituzioni venissero informati della gravità della situazione, dopo aver tentato invano di contattare il presidente della Repubblica Pertini che era in viaggio istituzionale in Sudamerica, fummo ricevuti dal presidente del Consiglio Forlani, il 25 marzo. Ad aprirci la porta di Palazzo Chigi fu il prefetto Semprini, che figurava nell’elenco degli iscritti alla P2. Forlani minimizzava, ma alla fine riconobbe la gravità della situazione.

Pressioni?
Pressioni direi di no, ma il procuratore della Repubblica di Milano, Gresti, ci chiese di restituire le carte a Gelli! Intanto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, presieduta da Francesco De Martino, chiede copia delle carte. In Parlamento cominciano a piovere le interrogazioni: Forlani risponde in aula martedì 19 maggio. La nostra sensazione – ascoltavamo la seduta parlamentare da Radio Radicale – è che il capo del governo volesse scaricare su di noi la responsabilità della pubblicazione delle liste. Circolavano, messe in giro ad arte, un sacco di voci sugli iscritti alla P2. Con il consigliere istruttore Amati, che era il nostro dirigente, Turone e io scriviamo una lettera in cui diciamo che ritenevamo coperti da segreto istruttorio i verbali delle deposizioni rilasciate dai testimoni che stavano sfilando davanti a noi, ma non il restante materiale. De Martino annuncia che la Commissione Sindona avrebbe provveduto comunque a rendere pubbliche le liste e dunque Forlani decide di farlo lui stesso: una settimana dopo cade il governo.

E le famose buste sigillate?
Erano circa 35, più o meno ognuna conteneva una notizia di reato. Le accenno al contenuto di due, giusto per capirci. Parlano di un conto, “Protezione”, presso la banca Ubs di Lugano, con riferimenti all’onorevole Claudio Martelli, e di versamenti per milioni di dollari a favore di Bettino Craxi. Oltre alle buste, in una Banca di Castiglion Fibocchi, trovammo le prove del pagamento delle quote d’iscrizione alla P2. Tutti erano disorientati. Allora l’idea era che i magistrati rispondessero a qualcuno in sede politica.

Quest’idea è rimasta: hanno annullato le elezioni in Piemonte e il segretario della Lega Salvini ha dato la colpa alla magistratura comunista. È un ritornello che abbiamo sentito in tutto il ventennio berlusconiano.
Certo, in modo strumentale. Allora invece era spesso vero che i magistrati rispondessero a qualcuno riservatamente in sede politica! C’è chi dice che secondo il manuale Cencelli la poltrona di Procuratore della Repubblica di Roma valesse quanto un ministero. I politici impazzivano, perché non erano in grado di attribuirci un’appartenenza. Non sapendo per conto di chi lavoravamo non sapevano con chi lamentarsi, o a chi rivolgersi per fermarci o per trattare. Non pensavano che fossimo veramente indipendenti! Sta di fatto però che nel giro di meno di sei mesi la Procura di Roma ha sollevato conflitto di competenza, la Cassazione le ha dato ragione, le carte sono trasmigrate a Roma e le indagini di maggior rilievo sono state subito archiviate.

E per Mani Pulite, pressioni?
Io posso parlare per me: mai nessuna. Se c’è stato qualche tentativo di avvicinamento, è stato subito bloccato. Borrelli è stato fondamentale per garantire la nostra piena autonomia.

In questo pregiudizio sulla scarsa indipendenza della magistratura dalla politica quanto hanno pesato le correnti del Csm?
Sono stato iscritto a Md da quando sono entrato in magistratura fino a quando mi sono dimesso, ma – salvo un incarico giovanile locale – non ho mai ricoperto funzioni istituzionali.

Però lei è stato a lungo un simbolo di Magistratura democratica.
Non intendevo affatto negare l’appartenenza, solo specificare che ho fatto poca vita associativa. Finché non c’è stato il Csm, le funzioni venivano svolte per un verso dal ministero e per l’altro dalla Cassazione: organi entrambi, allora, molto sensibili al potere. All’inizio degli anni Cinquanta, chi faceva il giudice in Cassazione si era formato in una società organizzata da regole che, per esempio, vietavano il voto alle donne, stabilivano discriminazioni all’interno della famiglia, consideravano reato l’adulterio femminile ma non quello maschile. C’era chi aveva sviluppato un pensiero alternativo, ma la massa era piuttosto allineata. La Costituzione, in conseguenza, veniva considerata più come un complesso di affermazioni programmatiche che non la legge fondamentale della Repubblica. Le correnti arrivano dopo: originariamente le posizioni erano perlopiù molto conservatrici, ed era quasi sovversivo allora essere in sintonia con la Costituzione. Magistratura democratica nasce nel 1964 e progressivamente nasce il paradosso dei magistrati politicizzati.

Si è sentito spesso dire che Md è stata ispiratrice di molte indagini delle toghe rosse.
Una cosa che posso dirle per certo è che io non sono stato mai “ispirato” da nessuno. Le indagini sono “ispirate” dalle notizie di reato. Piuttosto credo che queste affermazioni siano spesso volte a distogliere l’interesse dal merito delle indagini e dei processi. Per sapere se un’indagine è giustificata occorre leggere le motivazioni delle sentenze, cosa che credo avvenga davvero molto raramente.

Altro però è la gestione del potere all’interno della magistratura, per esempio la questione della spartizione degli incarichi tra le correnti.
Non c’è dubbio. Qui penso che ci siano problemi. È una questione culturale, che riguarda in generale il Paese. La competenza ha perso significato e valore, e a volte vale di più l’appartenenza rispetto alla capacità e alla preparazione. Temo che anche la magistratura si sia adeguata alla tendenza generale qualche volta, e che taluni incarichi siano stati assegnati attraverso accordi tra le correnti basati, appunto, sulle appartenenze.

I magistrati fanno carriera in base all’anzianità di servizio.
Il problema è più generale, riguarda la gestione dell’autonomia della magistratura. Le sembra logico che i criteri di scelta del dirigente di un ufficio siano, appunto, l’anzianità o se va bene, la bravura nello scrivere sentenze o nel dirigere le indagini? Il capo di un ufficio deve essere in grado di organizzare. Per dire, la Procura di una grande città, come Milano o Roma, è costituita, tra magistrati, polizia giudiziaria, cancellieri, personale amministrativo da circa un migliaio di persone.

Si parla di riforma della giustizia da sempre: da più parti s’invoca come risolutiva la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.
Non credo che aver fatto lo stesso concorso di un pm pregiudichi la terzietà di un giudice. Tanto è vero che accade non di rado che le richieste della Procura siano rigettate dai giudici. Supponiamo che sia vero che l’appartenenza alla stessa categoria crea un rischio parzialità: non sarebbe allora assai più drammatica la comunanza tra giudici di primo grado, Appello e Cassazione? Il giudice dovrebbe sempre comportarsi in modo da comunicare, anche all’esterno, un’immagine di indipendenza. A volte non è così, ma la separazione delle carriere non c’entra nulla: esistono già norme, sul passaggio tra ruoli, a tutela dell’imparzialità. La partecipazione alla stessa carriera serviva soprattutto a trasmettere al pubblico ministero la cultura della giurisdizione. Invece succede che il pm, per come la funzione è rappresentata dai media, è sempre più spesso identificato come l’accusa. Cioè qualcuno che ha come interesse la condanna, e non invece la corretta ricostruzione dei fatti.

Come è possibile che sia così poco percepito il rischio di una magistratura inquirente dipendente dal potere esecutivo, soprattutto in un Paese come l’Italia?
Questo è un passo ulteriore: una volta separate le carriere, allora sarebbe possibile sottoporre la funzione inquirente all’esecutivo. Sarebbe tragico. Anche se forse a tanti italiani, che mi pare abbiano ancora la mentalità del suddito piuttosto che quella del cittadino, forse non dispiacerebbe.

Per via di questa mentalità ha lasciato la magistratura per andare a insegnare la Costituzione nelle scuole?
Sì, anche ai bimbi piccoli. Capiscono molto più di quanto gli adulti vogliono credere e hanno una gran voglia di coinvolgimento, spesso frustrata da una scuola che, pur con eccezioni significative, tende più all’omologazione dei ragazzi che alla promozione della loro libertà responsabile.

Le esperienze politiche di ex magistrati o magistrati in aspettativa hanno suscitato molte critiche. Lei che pensa al riguardo?
La Costituzione prevede per tutti il diritto di elettorato attivo e passivo. Credo allo stesso tempo che il principio della divisione dei poteri sia fondamentale, da un punto di vista formale e sostanziale, per cui dal mio punto di vista non guasterebbe se chi volesse dedicarsi alla politica si desse la regola di dimettersi dalla magistratura e di lasciar passare del tempo, due-tre anni, tra un’esperienza e l’altra.

Nino Di Matteo è stato più che minacciato, è stato oggetto addirittura di un ordine di esecuzione da parte di Totò Riina, nel silenzio assoluto delle istituzioni.
In Italia, come in nessun altro Paese democratico, sono stati uccisi tanti magistrati. Quando ad ammazzare è stata la criminalità organizzata, le vittime erano spesso persone rimaste isolate: Falcone per esempio ha subito un progressivo isolamento. Sarebbe più che opportuno, anzi direi necessario e doveroso, che le istituzioni facessero sentire la loro vicinanza a Di Matteo. Anche con gesti simbolici, come la presenza fisica (una visita a Palermo, un convegno organizzato lì), ma che mi pare siano molto rari. Le persone che sono oggetto di quelli che a volte sembrano atti preparatori a un omicidio, dovrebbero essere il più possibile protette e garantite. Deve essere chiaro da che parte sta lo Stato.

In questo caso c’è un cortocircuito: nel processo sulla Trattativa, lo Stato è dalla parte sbagliata, quella degli imputati.
Per quel che ne so nessuno tra coloro che ora ricoprono cariche istituzionali è indagato in quel processo.

C’è stata però la questione della distruzione delle conversazioni tra il presidente della Repubblica e Nicola Mancino.
Mi pare che quella fosse una questione processuale e non andrebbe confusa con le più generali vicende delle minacce a Nino De Matteo.

Lei è anche consigliere del Cda della Rai, ormai al giro di boa di metà mandato. Bilancio?
Questa è un’altra, lunga, intervista: bisognerebbe parlare di leggi, procedure, competenze, delle difficoltà nell’esercitare le funzioni. E tanto altro…

da Il Fatto Quotidiano del 19 gennaio 2014

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