Impazzano su Internet da alcuni giorni i video della campagna “CoglioneNo” che, affilando sapientemente l’arma del paradosso, stigmatizzano la diffusa pratica della prestazione gratuita che si attua – a posteriori e al di là di qualunque trattativa – nel fumoso campo del “lavoro creativo”.

Questi video hanno tutto per diventare popolari in rete: pongono un’esigenza reale e condivisa, lanciano un’accusa perentoria ma senza destinatari fisici al punto da diventare una critica di costume, giocano sul paradosso e sono ben girati e recitati. Chiamano una condivisione facile, veloce, disimpegnata e auto-assolutoria per molti; allo stesso tempo castigano, ridendo, il malsano costume italiano che considera i lavori che hanno a che fare con l’espressione di se stessi passatempi per ricchi, svogliati o viziati. Almeno fino a quando il successo popolare non conferisce a questi lavoratori un ruolo accettato nel contesto sociale.

Ed è questo contesto sociale a definire il paradosso lavorativo, obbligando o forzando lavoratori ad accettare la gratuità a fronte di una presunta non-eccellenza poiché operano in un mercato saturo. Se tutti siamo creativi nessuno lo è, il tuo lavoro non è meritevole economicamente fino a che non raggiunge uno status di popolarità. Questa logica è figlia del sistema culturale italiano che offre ancora “riserve” di scolarizzazione d’alto livello per poi scordarsi di attuare politiche lavorative adeguate a queste eccellenze.

La stessa idea di lavoro in Italia è più legata al concetto di “cavarsela” che a quello di realizzare la propria persona. Questo porta a mettere tutto nell’ottica non di lavorare per vivere ma di vivere per lavorare. Allora passino le strade chiuse, i diritti negati, la paga in nero e le umiliazioni se l’obiettivo è solo arrivare a cavarsela.

Pensare che il mercato sia il fine ultimo di ogni nostro sforzo e non un mezzo per creare lavoro e dignità corrisponde a benedire una società diseguale e votata all’implosione, alle tensioni sociali più becere, all’infelicità. Questo è vero anche in campo creativo.

Una società dove lavorare vuol dire cavarsela non riesce a riconoscere valore alla produzione culturale. Questa è infatti labile e gioca su una fame antropologica ma non fisiologica, su un appetito capace di appiattirsi al livello del peggiore prodotto di consumo, che fa pensare piccolo e vivere piccolo, senza una visione. In un mondo in cui nessuno è creativo tutti diventano creativi, dai più bravi ai più annoiati ragazzini modaioli con atteggiamento bohemien, rimane a galla chi ha le amicizie, chi si crea dei circoli, ci ha più soldi, chi ha più possibilità. Oppure chi ha un’idea che intercetta una larga sensibilità comune, come ad esempio può essere la narrazione di un sistema paradossale presente nello spot di coglioneNO.

Allargando la prospettiva anche l’altezzoso e auto-compiacente atteggiamento critico verso tutto – e quindi verso niente – che pervade la rete è figlio di questa impossibilità di riconoscere il lavoro dentro alla creatività. Arrivare a fare le pulci ad un contrasto giocato come effetto comico significa non saper riconoscere la stessa funzione della comicità. E’ chiaro che il mestiere del freelance e quello dell’idraulico non sono identici, non lo scopriamo ora, è altrettanto chiaro che la gag è giocata proprio su questa distanza e senza una distanza tale non farebbe ridere e quindi non assolverebbe al suo primissimo compito. Lo scopo che ha uno spot del genere, essendo una forma di espressione e non una conferenza o un articolo scientifico, è stimolare un’emozione (ilarità, in questo caso) e porre una questione all’interesse collettivo. Il fatto stesso che si arrivi a rispondere a una battuta con un articolo argomentativo significa non riconoscere la funzione per cui esiste la battuta, che non è fatta per essere analitica ma parziale e d’effetto.

Semmai ha senso chiedersi fino a che punto Internet abbia cambiato il concetto di disobbedienza e protesta, trasformandola a volte in una smorfia di autoassoluzione in poltrona, altre in uno scetticismo intellettuale e annoiato di vivere: una società virtuale in cui tutti sono portati ad esasperare la rappresentazione di se stessi per tutte quelle ore in cui nella vita non riescono a realizzarsi. Costruire un mondo dove prima dei mercati venga il celebre diritto alla ricerca della felicità non è l’unico vero antidoto a questo scollamento tra il sé vivo e perdente e il sé virtuale e giudicante?

Cosa mette Internet tra noi e la percezione di una necessità di cambiamento collettivo e sistemico? L’impossibilità del mito. Qualsiasi proposta politica che passi dalla rete viene tritata dalla cosiddetta democrazia orizzontale. In una stanza dove tutte le voci sono alla stesso volume ogni frase è udibile al pari del suo contraddittorio, nessun promotore di idee ha gli anticorpi per sopravvivere ai critici e al sovraccarico di informazioni vere o false sul proprio conto. Ci si poteva fidare di un leader politico del quale l’opinione diversa era l’unica opinione diversa concedesse la televisione e del quale non si sapeva cosa combinasse dietro le telecamere.

Di fronte ai leader nati sul web oggi si può solo scegliere la strada del fanatismo per rimanere sordi alle contraddizioni insite nella loro politica e nella loro vita. Così, ancora una volta come nella storia, ci si accomuna nella negazione sterile del volto del potere (tutti a casa!) e non nella costruzione di un cammino comune in cui il “per noi” valga più del “per me”.

In questo contesto difficile e confuso in cui i momenti di condivisione sono quelli in cui tutti insieme diciamo quello che non ci va e non quello che ci va, dire tutti assieme che fare arte è un lavoro e deve avere dei diritti è un’operazione culturale bella, funzionale e più alta e nutriente per l’anima del dire “tutti a casa”. Talmente bella che la critica da cortile su quanti siano creativi e quanti vaneggino sembra davvero secondaria.

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