Non è un caso che il post pubblicato da Matteo Cavezzali sul Fatto stia generando un dibattito di tali dimensioni. È la sorte – ostinatamente ricercata dall’autore, tra l’altro – che tocca a chi costruisce delle teorie sociologiche senza avere gli strumenti per farlo. Un blog, secondo me, non è un luogo adatto per pontificare (con tanto di decalogo), ma è piuttosto un mezzo per porre nuovi interrogativi alla società civile, per offrire un punto di vista alternativo. Se per quanto riguarda il contenuto l’obiettivo è stato raggiunto, il tono e le figure retoriche utilizzate per farlo sono a mio avviso piuttosto discutibili. Un po’ di ironia non avrebbe guastato. Difficile altrimenti pretenderla dai lettori.
Mi sembra che uno degli aspetti peculiari dell’Italia (e non solo) al tempo della crisi sia una triste forma di appiattimento sociale per cui il gruppo di appartenenza primeggia sempre e comunque sull’individuo. È tutta una guerra, quindi bisogna per forza scegliere da che parte stare. Il quadro è talmente manicheo che non lascia scampo: Grillo è un mentore oppure un dittatore, Sorrentino è un genio oppure è un incapce, se te ne vai dall’Italia significa che ti fa schifo (e che ti senti superiore). Può essere, ma anche no. Seguendo questa logica, gli “Italiani-all’estero” diventano un’entità unica da condannare per il loro snobismo dimenticando che ognuno di essi ha una storia personale da raccontare e delle motivazioni altrettanto personali da addurre. È pur vero, d’altro canto, che da troppo tempo non si fa altro che elogiare acriticamente i Paesi stranieri, senza tuttavia mai entrare nel merito, giusto per sputtanare l’Italia. Generalizzare, insomma, non si rivela mai essere una scelta intelligente, né nel bene, né nel male.
Quindi: non è vero che gli italiani all’estero fanno tutti i lavapiatti, così come non è vero che qualunque altro Paese sia meglio dell’Italia. O almeno, che sia migliore in tutto e per tutto.
Detto questo, se mi sono deciso a scrivere queste righe è solo perché c’è una cosa di cui – tanto per cambiare – non si parla mai: la cultura. Intendo dire la passione, l’interesse, la curiosità per una cultura diversa dalla nostra. Si parla sempre di soldi, di contratti di lavoro, di burocrazia, di stato sociale. Tutto interessantissimo e verissimo, non mi metto qui a ripeterlo. Ma c’è anche chi, come me, è disposto ad allontanarsi dalla famiglia e dagli amici, a vivere da straniero in terra straniera, a fare sacrifici per restare in contatto con una lingua e con una cultura che ha sempre amato. È vero, oggi la Francia, nonostante io sia e resti un “immigrato”, mi permette di mettere su famiglia, cosa che Italia sarebbe stato impossibile. Ma non è questo il punto; probabilmente in Australia sarebbe stato ancora più semplice. Il fatto è che io voglio farlo qui, perché mi piace vivere qui. Per ora.
Per concludere, mi permetto di rispondere al decalogo di Cavezzali, in base alla mia esperienza:
È vero, a Parigi spesso noi italiani frequentiamo altri italiani. Anzi, direi che ci conosciamo più o meno tutti. È un punto di partenza quasi inevitabile. Chi vive a Parigi sa che all’inizio è davvero molto difficile costruire dei rapporti di amicizia sinceri e duraturi con i francesi (per non parlare dei parigini). In compenso, però, ci sono gli altri stranieri come noi. Tra l’altro il fatto che uno parta perché non vuole più avere a che fare con i propri connazionali, è alquanto discutibile.
È vero, so tutto dell’Italia. Resta comunque il mio Paese, quindi mi informo costantemente. Non solo su Berlusconi, ma anche su Renzi, sulla crescita della disoccupazione giovanile, sull’aumento del debito pubblico, sui tagli alla scuola pubblica. La mia famiglia e miei amici vivono lì, quindi è logico che mi interessi a tutto ciò.
È vero, a Parigi fa freddo. Ho sofferto tantissimo quando avevo le stufette elettriche e la corrente d’aria ghiacciata che passava attraverso gli infissi delle vecchie finestre mi tagliava la gola. Ora va meglio. Ma fidati che a Milano non è che fosse diverso, anzi.
Falso. A Parigi si mangia benissimo, se sai dove andare. Molto meglio che a Milano, tra l’altro, dove mi abbottavo di pasta fredda in aperitivo (per risparmiare) e di kebab. E poi, se ho voglia di mangiare italiano, c’è un rivenditore di prodotti italiani ogni 200 metri e ti assicuro che la pizza decente c’è! Certo, il caffè ristretto non te lo fanno dappertutto, ma non sai quanto è bello gustarsene uno quando si torna a casa.
È vero. Ma, come dicevo, all’estero non ci si va solo per fare carriera. Ci si va anche per imparare un’altra lingua, per conoscere un’altra cultura, per vedere nuovi posti, ma non da turista. Se potessi laverei i cessi in tutti i posti che mi piacerebbe visitare.
Falso. Qui pago tutto perché se sgarro sono cazzi amari.
Falso. Quando torno in Italia sono felice come un bambino, sono contento di ritrovare la mia famiglia, i miei amici e i luoghi significativi della mia vita. Ma soprattutto, non parlo (quasi) mai della Francia, a meno che qualcuno non me lo chieda oppure io non ritenga che il confronto possa essere costruttivo per il mio Paese. Anzi, spesso dico che qui non è che ci sia tutto questo lavoro, ma purtroppo non è abbastanza per convincerli a non venire.
Federico Iarlori