Ottantacinque. Non 85.000 (ottantacinquemila), né 8.500 (ottomilacinquecento), e nemmeno 850 (ottocentocinquanta), che già sarebbe spaventoso. No, no, proprio 85. Ottantacinque persone su questo affascinante e confortevole (per loro di sicuro) pianetino posseggono una ricchezza pari a quella di 3 miliardi e mezzo di persone, cioè lo 0-virgola-moltissimi-zeri-virgola-uno della popolazione ha un reddito pari a quello del 50 per cento più povero. La cifra, diffusa dall’Oxfam, è al di là di ogni immaginazione, provoca una specie di vertigine. In ogni paese del mondo c’è un grafico con due linee ben distinte: uno schizza verso l’alto, ed è la quota di ricchezza dei pochissimi super-ricchi, l’altra precipita verso il basso, ed è l’aumento della povertà dei moltissimi più poveri. Negli ultimi trent’anni la parte di ricchezza detenuta da pochi è aumentata ovunque e la quota di povertà distribuita tra gli altri è aumentata anche quella. Ovunque.

La lotta di classe esiste, insomma, non si ferma un attimo, non dà tregua, e i miliardari hanno vinto quattro a zero, coppa, giro di campo e champagne negli spogliatoi. Come sia stato possibile non è un mistero. Lo smantellamento di qualunque ideologia dell’uguaglianza e la sua applicazione politica (da Reagan alla Thatcher, alle scuole economiche iperliberiste che tanto piacciono a destra, ma anche a sinistra), per dirne una. E poi il potere politico delle multinazionali, per dirne un’altra. Immaginate di essere voi, normali contribuenti, a poter dettare le regole allo Stato in cui operate: abbassami le tasse, abbassami il costo del lavoro, fammi una legislazione comoda, fai pagare la sanità, fai pagare la scuola… Ecco, comodo, no? Voi non potete, un grande marchio sì.

Ma la discussione sulle cause (che sono numerose) non deve distrarre da una valutazione degli effetti: in molti casi siamo dalle parti dello schiavismo e in altre invece (i paesi industrializzati), alla proletarizzazione progressiva e costante del ceto medio. Insomma, anche nella ricchezza mondiale vince il bipolarismo, non più un mosaico di condizioni sociali, ma una marcia forzata e continua verso la polarizzazione: ricchi e poveri, e in mezzo poca roba.

Tutto questo, si direbbe, rende un po’ ridicole alcune stupidaggini fondamentali che vengono ripetute da decenni. Una: quella che recita che se aumenta la ricchezza diminuisce la povertà. Il ricco darà da lavorare, si dice, e migliorerà le condizioni dei poveri. Ecco. Cazzata, come ci dicono le cifre, dato che ovunque i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri e più numerosi. Altro mito di cartone da sfatare, il vecchio sogno delle simpatiche socialdemocrazie nordiche (che anche qui risuona, va di moda, insomma), cioè la famosa frase di Olof Palme, che diceva: “La sinistra non deve combattere la ricchezza ma deve combattere la povertà”. Bello, eh! Suona bene. Ottimo per l’aperitivo! Peccato che sia proprio la ricchezza di pochi a creare la povertà di molti.

Tassare i super-ricchi e le mega-imprese, costringerle a rispettare certi oneri sociali, a pagare le tasse, a pagare decentemente i lavoratori, a contribuire al progresso sociale dello Stato in cui operano cosa sarebbe se non “combattere la ricchezza?”. Non si fa, naturalmente, non è bello, non è conforme al pensiero unico che domina ovunque. In ogni angolo del mondo destre voracissime e sinistre pallidissime paiono unite nella lotta: tra i tre miliardi e mezzo ultimi e gli 85 che guidano la classifica, hanno scelto con chi stare.

Twitter @AlRobecchi

Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2014

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