Una settimana fa mi sono trasferito a Melbourne (Australia) con la mia famiglia, desideroso di vivere in un paese che guarda al futuro come un’opportunità da cogliere e non come una minaccia da evitare, non oberato da un passato troppo ingombrante che spesso costituisce una sorta di freno a mano permanentemente inserito che non permette di avanzare. Volevo che i miei figli crescessero in un sistema dove tutti pagano le tasse perché credono nel valore del servizio pubblico e, di conseguenza, ricevono un’ottima educazione gratuita, senza doversi svenare in cerca di scuole private, ed un’assistenza sanitaria di primo livello.

L’arrivo all’aeroporto di Melbourne, prima porta di ingresso nel paese, mi ha consolidato nei miei convincimenti. Ho viaggiato in tutto il mondo per lavoro ed ho sempre considerato la qualità dell’accoglienza alla frontiera delle persone provviste di regolare documenti di entrata nel paese uno degli indicatori più significativi del livello di sviluppo di un paese. Chi di voi ha bazzicato un po’ di frontiere africane ricorderà gli stati di tensione che si provano ogni volta che ci si avvicina ad un funzionario del controllo passaporti, anche se si hanno tutti i documenti in regola. Le occhiatacce di traverso dello stesso, la slow-motion infinita perché il timbro arrivi a toccare il vostro passaporto, i continui accenni a possibili richieste di qualche prebenda. Scene ordinarie in tanti paesi in via di sviluppo. Purtroppo.

Dicevo dell’arrivo a Melbourne, appunto. Contate che erano le 3 di mattina dopo un viaggio durato 30 ore e pertanto la prospettiva di passare ancora del tempo a sbrigare paperwork all’aeroporto non era il massimo della vita. Però immaginavo che ci sarebbe voluto del tempo: famiglia di 4 persone, con visto professionale permanente per il capo-famiglia esteso agli altri componenti della famiglia, primo ingresso nel paese…Andiamo davanti al controllo passaporti: una quantità incredibile di sportelli aperti, niente code. Tocca noi: consegno il mio passaporto ed intanto preparo, da buon italiano, le quintalate di carta che pensavo servissero. Il funzionario passa il passaporto nello scan e, come per incanto, recupera nel sistema tutti i nostri dati, da cui evince il tipo di visto etc.. Prende i quattro passaporti ed appone un timbro “Arrived in Australia” con la data del nostro arrivo. E con un sorriso ci dice: “Welcome to Australia”. Tempo totale: 1 minuto. Incredibile. Usciti dal controllo andiamo al recupero valigie: facciamo appena in tempo ad affacciarci e vediamo le nostre valigie girare sul rullo. Passiamo il controllo bagagli senza problemi e dopo 10 minuti dall’atterraggio siamo sul taxi per andare a casa.

Tante volte, quando rientravo in Italia dalle mie trasferte di lavoro, guardavo con attenzione il trattamento riservato agli stranieri dai nostri addetti al controllo passaporti. Se immaginiamo una linea retta con alle due estremità l’Australia e, tanto per fare un esempio, il Niger, direi che l’Italia si posiziona a metà strada dei due, ma con una leggera inclinazione verso il Niger. Se poi al capitolo controllo passaporti aggiungiamo quello della consegna delle valige, direi che il Niger si avvicina pericolosamente. E chi di voi ha bivaccato a Malpensa per ore in attesa della propria valigia sa di cosa sto parlando.

Nel mondo siamo conosciuto come un paese ospitale, composto di persone umanamente calde ed accoglienti: è un brand che certamente non valorizziamo quando si tratta di accogliere gli stranieri in aeroporto. Ed allora, mi permetto di fare una proposta al Ministro Bonino, che certamente su questi temi ha una sensibilità spiccata ed attenta. Vada dal suo collega di governo Alfano e, a parziale risarcimento della figuraccia inflittale con il caso Shalabayeva e della sua rinuncia ad avanzare rimostranze (le vera Bonino avrebbe fatto fuoco e fiamme se svestita della toga governativa), pretenda un intervento di formazione svolto dal Ministero dell’Interno su tutto il personale addetto al controllo passaporti, affinché l’arrivo di uno straniero in Italia diventi per noi una prova di civiltà, organizzazione ed educazione invece che un fastidio da espletare con la faccia scura.

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