Mondo

Palestina: piccolo diario in parole di donna – III

Una volta mi sarei detto che tutto ciò che accade oltre le mie “colonne d’Ercole” non mi riguarda, non esiste, è altro mondo e il mio è questo, quello che calpesto, che vivo ogni giorno. Una volta mi sarei irrigidito alla sola vista di chi è diverso da me, ma non per indifferenza: per la paura di ciò che è differente. Per cambiare il mio sguardo sul mio mondo (piccolo) ci hanno pensato i miei figli: domandano, chiedono, insistono come il Piccolo Principe… finchè non hanno una risposta. Mi hanno insegnato ad affrontare tanto il disabile quanto il mendicante, sempre con la stessa domanda: perchè è così? Non servono risposte forbite, ma solo semplicità, purchè onesta. So di non avere il talento (coraggio) di Cecilia per affrontare un luogo così diverso dal mio come la Palestina, ma posso provare a raccontarlo ai miei figli, sperando che un giorno abbiano la curiosità di sapere che non ci siamo solo noi, liberi in tempo di pace, ma anche luoghi in cui tutto questo è travolto dalle macerie, come la Palestina. (GF) 

Giorno 07 Jordan Valley, Betlemme

Bevi il caffè e prepara lo zaino: stanotte non dormiremo qui. Tra campi e fattorie ci accoglie il Sindaco di un piccolo villaggio della Jordan Valley. È seduto su una sedia a rotelle, e mentre ci offrono tè e caffè arabo lui racconta.

“Quando avevo 16 anni un soldato americano mi ha sparato 3 proiettili, paralizzandomi. Uno è ancora dentro di me, vicino al cuore, ogni giorno a ricordarmi il dolore dell’occupazione Israeliana. Il 95% delle case di questo villaggio hanno ricevuto l’ordine di demolizione da Israele. In tutta risposta, noi abbiamo costruito ancora. Scuole, asili, società per le donne, foresterie, moschee. Produciamo e vendiamo i nostri prodotti, ciò che ancora riusciamo a fare, dato che ci hanno tolto i terreni e non possiamo mettervi piede. Sapete, dobbiamo fare attenzione: l’anno scorso hanno arrestato 450 pecore. Davvero, non le hanno ‘sequestrate’, le hanno ‘arrestate’!”. Ridiamo tutti, nell’amarezza. Lo sguardo si perde sulle recinzioni metalliche, sulle telecamere, sulle jeep dei soldati in lontananza.

Ci spostiamo al Salah Khalaf Center, ex carcere israeliano. La nostra guida sa esattamente di cosa sta parlando.

“Sono stato portato qui 15 volte, sia d’estate che d’inverno. Bendato, legato ai polsi e alle caviglie, lasciato 3 giorni seduto su questa sedia, nel cortile interno dell’edificio. Tutti dovevano aspettare qui 3 giorni, lo fanno per indebolirti fisicamente e psicologicamente, lo sapete, è la procedura. Poi incominciavano gli interrogatori, che duravano 10-20 giorni.”.

“Ma cosa avevi fatto?”

“Niente. Non era un carcere per terroristi, ma per Attivisti Universitari. Studenti. A volte erano solo sequestri preventivi, per scoraggiare qualunque attività. L’unica volta che sono riuscito a fare io una domanda durante un interrogatorio, ho chiesto:

‘Perché sono qui?’

Mi hanno risposto: ‘Perché pensi’.

Questo succedeva negli anni 80, e ancora oggi è quello che li spaventa più di tutto, perché non sanno come fronteggiarlo. È quello che fate voi. Resistenza Culturale“.

Facciamo le prove coi ragazzi di Nablus in quel cortile, tra quelle mura. ‘Resistenza Teatrale’. Poi si riparte.

Betlemme. Eh. Betlemme è la Las Vegas della natività: lucine lampeggianti, decorazioni strabordanti, souvenir pacchiani. La Basilica della Natività chiude molto presto. In compenso lì di fronte hanno montato un bel service da piazza. Piccola folla, una ragazza turca canta Wrecking Ball. Un cartello luminoso a fianco: “Vi accogliamo nel vostro viaggio a Betlemme come accogliemmo il Principe della Pace!”.

…E sticazzi? 

Giorno 08 Parte Prima, “Inferno” Hebron

Qui ci sono i Settlements, più che altrove. La città vecchia pullula di insediamenti israeliani: case, strade, quartieri requisiti con la forza ai loro legittimi proprietari, le zone in cui si insediano i coloni. Intere famiglie israeliane che ricevono sovvenzioni per andare a vivere in case semidistrutte, ancora piene della vita palestinese che vi ha abitato per generazioni, in un luogo inospitale per chi lo abita con la forza. I coloni servono la causa di Israele, occupano queste case e compiono sistematici e quotidiani atti di violenza contro gli storici abitanti della città per farli crollare, per farli andare via per sempre. Non è fantascienza. Si chiama Hebron.

La Old City è blindata, gli unici ingressi sono i checkpoint da cui possono accedere solo i palestinesi che “si ostinano a vivere lì” e i turisti. Gli altri palestinesi, Not Allowed. E chi ancora vive lì, non può raggiungere la sua casa. O meglio, non per la via principale: quelle sono solo per i Coloni, i Settlers. Loro devono passare tra le aiuole, nei giardini abbandonati, devono scavalcare muri, inerpicarsi su scalinate pericolanti, nel fango. Nei cimiteri. Dove riposano i loro vecchi, e dove gli impediscono di seppellire i nuovi martiri. Chiamano martire chiunque muoia per mano di Israele.

E la mano di Israele è anche quella dei figli dei coloni, con lo zaino sulle spalle, la kippah sulla testa e i boccoli ben fatti sulle guance. La mano che tira pietre agli altri bambini, all’incrocio delle due strade, perché gli insegnano da subito a odiare e scacciare l’arabo, barbaro invasore delle loro proprietà. La mano che getta rifiuti e liquami dai settlements sulle vie del mercato palestinese, tanto da costringerli a mettere una rete sulle loro teste. Da costringerli a chiudersi in gabbia da soli. E a mettere in gabbia i loro figli: ogni arabo che nasce sarà un terrorista domani, meglio cercare da subito di bruciarli nelle loro aule. La scuola elementare sembra un carcere. La mano di Israele è quella che si è stesa sulla vita di Haashim.

“I coloni mi hanno offerto 20 milioni di dollari per la mia casa. Mi hanno offerto Miss Israele. Lavori e cariche politiche. Io non me ne vado dalla mia terra. Allora hanno iniziato a tagliarmi le strade per tornare a casa. Non ho mai più potuto attraversare Shuhada Street da allora, come ogni palestinese su questa terra. Hanno iniziato a tagliarmi le piantagioni, ad avvelenarmi il vigneto, a rubarmi le olive. Mia moglie era incinta di 3 mesi. L’hanno picchiata e ha perso il bambino. Poi aspettavamo un altro bambino. 4 mesi. L’hanno picchiata. Lo ha perso. Mi hanno distrutto i mobili e distrutto la faccia. Non possiamo lasciare la casa completamente vuota, mai, in meno di un’ora entrerebbero i settlers e sarebbe stato tutto vano. Ma noi resistiamo.”.

Non riesco, non riuscirò mai a togliermi dalla memoria il viso della sua figlia più piccola. Ha tre anni e due occhi che vedranno solo follie, braccia e gambe che si romperanno per le spinte sulle scale che le daranno i coloni, una pancia che riceverà calci su calci non appena sarà piena di vita. Piango senza freni mentre mi offrono tè e biscotti. La moglie mi abbraccia, mi sorride, e mi dice “Don’t Worry”.

“Don’t Worry”

“Don’t Worry”

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