Le elezioni europee si avvicinano. Di programmi si parla poco. Soprattutto, non c’è un discorso presente sull’Europa, sul ruolo dell’Italia in seno all’Ue, sul contributo politico e culturale che il nostro Paese può fornire alla ridefinizione degli obiettivi dell’Unione.

Siamo di fatto vittime dell’euro, di imposizioni della finanza istituzionalizzata, del Mes e di altre decisioni dall’alto, mai condivise con il popolo.

L’impressione è che le elezioni europee siano percepite, in Italia, come un rito di scarsa importanza; nonostante i risultati delle ultime, del 2009, che sembrarono restituire la speranza di una svolta e anche la fiducia nella moralizzazione della politica nostrana.

Di solito la tornata europea è uno strumento, per i partiti, che fornisce precise indicazioni elettorali e strategie. Nel breve periodo di presentazione della proposta di liste e candidati, di Europa non si dice nulla, in Italia. Nessuno può negare che ricorrano motivi propagandistici a effetto, tipo – nel 2009 – il controllo da Bruxelles dell’esercizio del potere a Roma; il che non è avvenuto per come prospettato da Luigi de Magistris, investito da una montagna di consensi. Mario Monti s’insediò come sappiamo ed eseguì puntuale il suo compito di notaio degli apparati finanziari europei, scorporati dalla democrazia elettiva.

La stampa asseconda largamente – non tutta, sia chiaro – l’eterna ricostruzione dei partiti sotto la stessa specie, che trova nelle elezioni europee una verifica di rilievo. L’approfondimento sull’Europa e sul mondo è, poi, piuttosto contenuto. Tuttavia, questo è un problema che va rinviato a maggiore spazio.

Ci sfuggono, per causa della semplificazione e spettacolarizzazione di tanti media, i processi teorico-politici di unificazione del mondo terzo; quello, cioè, che non ha da fare con le sedi e gli strumenti di comando dell’Occidente. Sappiamo abbastanza poco dei conflitti nelle zone calde del pianeta, delle questioni islamiche, di geopolitica in generale. Per contro, ci accaniamo – quasi fosse un tratto genetico, prima che antropologico – sulle vicende dei nostri quartieri, sulle storie alla Peppone e don Camillo e sulle – direbbe De Andrè – “cause leggere” di Disamistade.

Ci manca spesso una visione d’insieme, la capacità d’immaginare un orizzonte di vita possibile, di organizzare una coesione, una solidarietà politica che ci incoraggi a seguire percorsi di avvicinamento alla meta, coinvolgendo gli abitanti di villaggi e metropoli della rassegnazione. Non serve più la violenza verbale, né giova trasformare le frustrazioni subite in vomito contro il prossimo. Per ultimo, non possiamo credere che la storia cominci da noi in avanti o che si possa conoscere e sapere solo consultando Internet.

Queste poche riflessioni, spero costruttive, mi sono venute in mente leggendo insulti, anche molto volgari, rivolti in rete al filosofo Gianni Vattimo, che di recente ha manifestato la volontà di candidarsi al Parlamento europeo sotto il simbolo Cinque Stelle. Bene, per le regole del Movimento Vattimo non è candidabile. Ciò non significa che vada ricoperto di fango e ricondotto al potere che si trasforma e ricicla per interessi riprovevoli.

Nel 2005 Vattimo si presentò come sindaco di San Giovanni in Fiore (Cs) in una lista civica sganciata dai partiti, con un programma di valorizzazione del territorio e con l’obiettivo di ribaltare la subordinazione degli elettori e trasformare, sul posto, la cultura della partecipazione politica

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