Dal teatro al cinema, mettendo in scena il proprio vissuto: difficile, “vergognoso”, ambiguo, irrisolto, dannatamente divertente. È Tutto sua madre (Les garçons et Guillaume, a table!) scritto, diretto e doppiamente interpretato da Guillaume Gallienne, a partire dalla sua pièce omonima che in Francia conquista pubblico e critica da 15 anni.
Applausi confinati Oltralpe, s’intende, ma questa trasposizione, già premiata alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2013, arriva nelle nostre sale per scoprire l’arcano: la commedia i francesi la fanno meglio. Sono più versatili, coraggiosi, disinibiti e, senza quasi inventare nulla, sanno innovare come pochi, aprire il compasso dei registri e dei sottogeneri e trovare la quadratura del cerchio: Tutto sua madre quanti nostri registi/drammaturghi/attori potrebbero farlo? Sulla carta tanti, sullo schermo nessuno. Dunque, ci tocca (sor)ridere d’importazione – il copia & incolla di Bienvenue chez les Ch’tis l’abbiamo in carnet, questo mai l’avremo – e farci prendere per mano da Guillaume, che sin dalla tenera età fu scippato della propria volontà ed eteroguidato da mammà: prima volle essere lei, la mamma, poi una donna, infine un gay. Ma il punto è questo: volle lui o volle lei, con tutti gli altri religiosamente in coda?
Bella domanda, il finale non va rivelato, ma tra i meriti da ascrivere a questo divertissement autobiografico ce n’è uno da non sottovalutare: il sovvertimento canzonatorio, ridanciano e sottile assai del “genere” LGBT, che dai festival dedicati conosce recentemente anche fortunati sdoganamenti, su tutti il riuscito e controverso Lo sconosciuto del lago. Dalla scampata orgia – il buon Guillaume paga l’indicazione geografica tipica… – alla paura del “cavallo”, tic, ossessioni e abitudini omoerotiche vengono messi deliziosamente alla berlina, senza moralismo, senza piagnistei: “gay è bello” rimane in piedi, “gay è meglio” no, e anche la galassia LGBT dovrebbe brindare, perché seppur al contrario sempre di discriminazione e ghettizzazione si tratta. Avete capito, siamo dalle parti dell’Almodóvar meno fracassone e più intimo, ma Gallienne imbarca anche tonalità (anti) borghesi già care a Marco Ferreri e diorami esistenziali à la Wes Anderson, sciorinando una chicca dopo l’altra, sempre tenuto sotto osservazione dalla mamma (la interpreta lui stesso in versione drag, immaginatevi una Catherine Deneuve algida e imperativa): dalle lezioni di flamenco in Spagna, dove impara la parte della donna, alla clinica per ricchi e malmessi in cui la teutonica Diane Kruger gli serve un clistere che non si dimentica.
Si parte dal palcoscenico, ma l’eredità teatrale non è un cappio; si dribblano le tentazioni sit-com e i tranelli confessionali; si apre – l’analisi retrospettiva di Gallienne non deve essere stata indolore – al lavaggio pubblico dei privati panni sporchi, mettendo in centrifuga identità sessuale, confusione e riappropriazione di genere, narcisismo d’attore e macerazione di uomo.
Senza appesantire di un solo grammo un film ilare, lieve e stilisticamente ineccepibile, già concluso nel titolo sintomatico e perfido: “I ragazzi – i due fratelli maggiori – e Guillaume, a tavola”, con cui la madre imbandiva la sua categorica divisione dei ruoli. Che farà Guillaume, si ostinerà nella parte in cui le altrui aspettative l’hanno relegato o resetterà per scoprirsi da Me, Myself and Mum (titolo internazionale) a Me, Myself and I? La solita gran bella domanda, ma nulla potrebbe la risposta se non fosse calata anima e corpo – anzi, due corpi – in Guillaume Gallienne della Comédie Française, istrionico e contenuto, fusionale e metamorfico, ma sempre con misura. Tutto sua madre, insomma, e non suoni minaccioso. Guillaume che volle farsi Guillaume: da vedere.
Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2014