Il decreto del governo sul rientro dei capitali dall’estero è ancora vago, ma ha già un buco. Colpa dell’eredità dell’ultimo scudo fiscale, quello voluto dal governo Berlusconi nel 2009 e che ha permesso allo Stato italiano di incassare 5,6 miliardi di euro. Quello scudo aveva un trucco: permetteva agli evasori con enormi capitali nei paradisi fiscali di regolarizzare la loro posizione pagando pochi spiccioli e garantiva loro la possibilità, per i successivi cinque anni, di essere protetti da ogni contestazione.

Nella giurisprudenza tributaria si è affermata l’interpretazione più estensiva: visto che non c’è praticamente modo di chiarire quali somme sono state scudate, chiunque abbia usato lo scudo e poi sia stato sorpreso ad avere “una capacità economica non ufficiale”, come si dice in gergo, poteva sempre argomentare che le somme contestate erano proprio quelle scudate. Una specie di immunità che durava cinque anni. E, guarda caso, dopo cinque anni arriva un altro scudo fiscale o, come preferisce chiamarlo palazzo Chigi, un provvedimento sulle “Regolarizzazioni dei capitali detenuti all’estero”. Sanzioni amministrative ridotte “fino alla metà se il contribuente trasferisce i capitali in Italia o in un altro Paese dell’Unione europea o in Stati aderenti all’accordo sullo spazio economico europeo che consentono un effettivo scambio di informazioni, oppure se si rilascia all’intermediario estero l’autorizzazione a trasmettere le informazioni al fisco italiano”. Chi si autodenuncia “non sarà perseguibile per omessa o infedele dichiarazione”, quanto ai reati che di solito sono dietro ogni somma accumulata in nero all’estero, “la pena è ridotta fino alla metà”. Tutti incentivi inutili se non arriverà la sempre annunciata (e mai realizzata) intesa tra Italia e Svizzera per lo scambio di informazioni. Comunque lo Stato ha già rinunciato a un tesoro da oltre 50 miliardi, protetto per sempre nei paradisi fiscali più opachi.

Per capire perché bisogna tornare al 2009 e leggere la relazione scritta dal sostituto procuratore di Pistoia Fabio Di Vizio, dal titolo “Lo scudo degli evasori riservati e suscettibili: a loro immagine e somiglianza (lo strano caso di un’emersione a volto coperto)”. Con lo scudo ideato dall’allora ministro Giulio Tremonti sono “emersi” 104,5 miliardi di euro, una cifra enorme, se si pensa che oggi il totale dei capitali ancora nascosti è stimata in 180 miliardi. Sulla carta, 102 miliardi sono stati davvero rimpatriati, altri 2,5 miliardi sono stati invece solo “regolarizzati” e sono rimasti là dove si trovavano, cioè in Paesi fiscalmente collaborativi con l’Italia.

Ma le cose sono peggiori di come sembrano. La legge lasciava incredibili scappatoie agli evasori, circa 180 mila, che vi hanno fatto ricorso: bastava dare un mandato fiduciario a un intermediario finanziario italiano (per esempio una banca), che si assumeva la custodia o la gestione di un deposito, e così si poteva regolarizzare la somma da scudare lasciandola però nel paradiso fiscale in cui si trovava, anche e soprattutto se si trattava di un Paese che si rifiuta di collaborare con l’Italia per la lotta all’evasione fiscale (Svizzera, Monaco, San Marino).

Con questo sistema, denuncia il magistrato Di Vizio, gli evasori sono riusciti a regolarizzare mantenendoli all’estero ben 51,4 miliardi di euro. Una montagna di denaro rimasta opaca e diventata intoccabile per le autorità italiane, col risultato che “sono definitivamente confuse, se non precluse, verifiche fiscali e penali per importi ancora maggiori proprio nei confronti di coloro che hanno commesso in passato violazioni fiscali, plausibilmente i più esperti e propensi a ripeterle”, scrive Di Vizio. Sono gli stessi soggetti che ora stanno cercando di capire se converrà aderire al nuovo scudo di Letta. Ma aspettano di vedere i dettagli del provvedimento. Per capire se, anche questa volta, ci saranno scappatoie che permetteranno di mettersi al riparo dalla giustizia salvando tutti o quasi i propri capitali.

Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2014

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