Non hanno un lavoro, non riescono a trovarlo e a ben vedere non lo cercano nemmeno, come se si fossero definitivamente arresi alla prospettiva di una disoccupazione permanente. Sono i rassegnati del lavoro, coloro cioè che volenti o nolenti hanno finito per collocarsi ai margini del mercato. Talmente ai margini, di fatto, da non essere nemmeno conteggiati dalle statistiche ufficiali, quelle, per intenderci, che consegnano ogni mese dati sul tasso di disoccupazione sempre più opinabili in quanto incapaci di fotografare il reale stato delle cose. Nel mese di dicembre, il livello di disoccupazione nell’area Euro ha toccato il 12,1% evidenziando un numero di senza lavoro pari a circa 19 milioni di unità. Ma conteggiando anche i rassegnati cronici, segnala oggi l’agenzia Bloomberg, la cifra reale del terzo trimestre dovrebbe essere ampiamente corretta al rialzo fino a quota 31,2 milioni di persone.

Uno “spread” clamoroso. A conti fatti si tratta di un vero dramma, ma l’aspetto più significativo, almeno dal punto di vista di casa nostra, è un altro. Perché a quanto pare, numeri alla mano, nessun Paese europeo oggi se la passerebbe male quanto l’Italia. Secondo i calcoli di Bloomberg, infatti, ben 4,2 milioni di italiani avrebbero attualmente rinunciato a cercare un lavoro. Un dato che porterebbe questa sorta di tasso effettivo (definito “labor underutilization rate”) al 24%. Praticamente il doppio del tasso di disoccupazione ufficiale registrato dall’Istat (12,7%). Ragionando in termini di “spread” il confronto diventa impietoso. Perché il divario tra il dato reale e quello ufficiale evidenziato dall’Italia supera di gran lunga il gap di altri Paesi colpiti dalla crisi. In Grecia i disoccupati registrati dall’Eurostat, l’ufficio statistico Ue, sono il 27,8%. Quelli della stima Bloomberg arrivano al 29,1.

In Spagna il tasso reale si colloca al 31,6% contro un percentuale ufficiale del 26,7%. Detto in altri termini, il gap italiano supererebbe quello spagnolo di 2,3 volte. Ma cosa determina la poco invidiabile particolarità italiana? Da un lato, verrebbe da dire, c’è la progressiva perdita di speranze associata agli effetti della recessione. Il che, in termini economici, si traduce nella disoccupazione di lungo periodo. L’Italia, rileva ancora Bloomberg, è uno dei posti peggiori in cui perdere il proprio impiego: tra coloro che restano senza lavoro, dicono le statistiche, soltanto il 14-15% riesce nell’impresa di trovare una nuova occupazione entro un anno. È la più bassa percentuale registrata in Europa. Dall’altro lato c’è poi il basso livello salariale che rende il lavoro sempre meno attraente. Innescando così la classica spirale del welfare informale.

Il sostegno integrativo della famiglia, in altri termini, consente a molti lavoratori di accettare stipendi eccessivamente bassi (il 12% dei lavoratori italiani non è in grado di vivere autonomamente con il solo stipendio) “drogando” di fatto la curva dell’offerta di lavoro. In questo contesto le imprese possono continuare a tenere bassi i compensi (che tali sono anche per via della pressione fiscale) con il risultato di indurre altri lavoratori a rifiutare impieghi sottopagati senza che questa opzione finisca per mettere in crisi la politica dei bassi salari. E per chi accetta? Il destino, ovviamente, è quello di andare incontro a soluzioni di ripiego che influiscono anch’esse sull’alterazione statistica.

Al di là dei dati Bloomberg, in questo senso, sembra opportuno un riferimento alle sempre più impietose statistiche Ocse. Nel 2000, in Italia, la percentuale dei lavoratori part time “involontari”, ovvero di coloro che si ritrovati impiegati a tempo parziale non per scelta ma per l’impossibilità di trovare un lavoro a tempo pieno (con ovvie conseguenze in termini di stipendio), si collocava all’1,9% della forza lavoro. Nel 2012, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati ufficiali, la percentuale si collocava al 7,1. Nello stesso anno, il dato sui part time involontari italiani era pari al 4,6% della popolazione totale. Contro lo 0,9% di inizio secolo.

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