Inizia a suonare e comporre fin da quando aveva 12 anni e sin da subito dà segni di nostalgia per i bei tempi andati. Ma è possibile soffrire di nostalgia per qualcosa che non si è nemmeno vissuto? Jake Bugg il suo album d’esordio, è di una bellezza che colpisce sin dalle prime note: con quella voce un po’ nasale e con lo stile inconfondibile del folk è impossibile non riconoscerne le influenze: in primis del menestrello Woody Guthrie, poi a seguire colui che più a questo si è ispirato: Bob Dylan, ma anche Hank Williams, i Beatles e Jimi Hendrix.
Shangri-La, oltre a essere il luogo immaginario descritto nel romanzo Orizzonte perduto da James Hilton – un Eden materiale e spirituale ove l’occupazione degli abitanti era quella di produrre cibo nella misura strettamente necessaria al sostentamento e trascorrere il resto della giornata nell’evoluzione della conoscenza interiore della scienza e nella produzione di opere d’arte – è il nome degli studi di registrazione a Malibu in California del produttore Rick Rubin, vecchia volpe della musica Made in Usa, uno che ci vede lungo (ha prodotto fra gli altri Slayer, Red Hot Chili Peppers, Eminem e U2) ed è anche il titolo scelto per il nuovo disco, per la Universal, uscito nel novembre 2013 di Jake Bugg.
Composto da dodici brani – fra i quali spiccano per bellezza There’s a beast and we all feed it, Slumville Sunrise e What doesn’t kill you che si distanziano non poco dal disco d’esordio – in quest’album – con il quale è in nomination per l’edizione 2014 dei BRIT AWARDS, i premi che onorano le eccellenze britanniche in campo musicale, che si assegneranno il prossimo 19 febbraio alla O2 Arena di Londra – troviamo un Jake Bugg in veste elettrica e con un sound dai rimandi punk, per una piacevole commistione di stili in cui il giovane artista fonde il songwriting americano con un inconfondibile stile british, mostrando una prodigiosa evoluzione tecnica e stilistica. Un talento così giovane che cerca di non dipendere né da questa significativa crescita musicale né dalla ricerca disperata della scrittura delle canzoni. E il tocco dell’esperto Rubin, unito all’apporto dei musicisti coinvolti – da Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers (batteria) a Matt Sweeney (chitarre) e Jason Lader (basso) – rendono, nel complesso, il lavoro sublime. Quel che è certo è che fin quando esistono artisti come lui, il Rock, più volte dato per finito, spacciato, morto, può dormire sonni tranquilli. Keep on rockin’ direbbe zio Neil.