Le foto di “Cesare” (il poliziotto militare disertore) che mostrano cadaveri di detenuti torturati hanno fatto irruzione e scalpore alla vigilia di “Ginevra II”, la conferenza di pace sulla Siria.
Tra i molti commentatori che hanno analizzato il rapporto che le contiene, Robert Fisk – che certamente non è pro-Assad – si è posto e ha posto su The Independent una serie di domande: perché ora? Che credibilità ha un rapporto promosso dal Qatar? Perché le foto e la loro analisi non sono state affidate alle organizzazioni non governative per i diritti umani anziché venir rese pubbliche da uno studio legale inglese, corroborate dal parere di noti procuratori internazionali (almeno due dei quali al di sopra di ogni sospetto) e di esperti di medicina legale di provata competenza?
L’apparizione improvvisa di “Cesare” e delle sue foto alla vigilia di “Ginevra II” fa parte di quelle “denunce a orologeria” che rischiano di rovinare la ricerca indipendente sulle violazioni dei diritti umani.
Negare l’esistenza di violazioni dei diritti umani per il mero fatto che i tempi e i modi delle denunce sono sospetti, rischia di costruire intorno alle autorità siriane un clima assolutorio. Così come per molto tempo si sono negate o minimizzate le violenze dell’opposizione armata perché altrimenti si sarebbe fatto “il gioco di Assad”.
Ai fini dell’accertamento delle responsabilità oggi le foto di “Cesare” servono a ben poco. Paradossalmente, non ce n’era bisogno. Così come non c’era bisogno di foto struggenti quanto fabbricate (come da ultimo rivelato da Haaretz) per illustrare il dolore dei tanti bambini che in Siria hanno perso la famiglia e ogni altra cosa.
“Cesare” o non “Cesare”, le missioni e le ricerche di Amnesty International in Siria – ovviamente non commissionate dal Qatar – confermano l’esistenza della tortura e la sua diffusa pratica nelle carceri del paese: del resto, di questa “expertise” si erano serviti anche i paesi occidentali nella “guerra al terrore”.
Quelle ricerche puntano anche l’attenzione su una questione finora ritenuta secondaria rispetto ad altre che numericamente la schiacciano, come quelle dei morti, dei profughi interni e dei rifugiati.
Nei tre anni di conflitto in Siria migliaia e migliaia di civili sono stati arrestati dalle forze governative o presi in ostaggio dai gruppi armati di opposizione.
Attivisti per i diritti umani, giornalisti, oppositori non violenti, dissidenti politici sono stati arrestati nei primi mesi della rivolta. Uno di loro è Majd al-Din al-Kholani, un ragazzo di 25 anni di Daraya. Offriva fiori e bottiglie d’acqua ai soldati. Un altro è Mazen Darwish, presidente del Centro siriano per i media e la libertà d’espressione, in prigione ormai da quasi due anni.
Dall’altra parte del conflitto, alcuni gruppi armati di opposizione hanno preso a ricorrere in modo sistematico a sequestri, detenzioni e torture (come descritto in dettaglio nel recente rapporto di Amnesty International sull’operato dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante).
Ne è drammatico testimone l’incubo che stanno passando dall’agosto scorso almeno 105 civili – per lo più donne e bambini – rapiti in villaggi a prevalenza alawita da un gruppo armato di opposizione che sperava di poterli scambiare con combattenti dell’opposizione trattenuti dal regime siriano. Il loro sequestro continua.
Queste storie a “Ginevra II” non hanno interessato alcuno.
Più che discutere se le foto dei morti sono vere o false (per quello, ribadisco, occorrerebbero analisi indipendenti), sarebbe importante che la comunità internazionale si occupasse di quelli che, in Siria, sono vivi. Per il momento.