C’è una storia che in pochi conoscono e che voglio diffondere attraverso il blog, perché continui a essere divulgata. Protagonisti sono gli attivisti del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES): un’organizzazione nata a Tunisi per agire politicamente sulla situazione delle donne, dell’ambiente, dei migranti e del diritto al lavoro. All’inizio della sua attività, l’organizzazione non aveva previsto di farsi carico direttamente anche delle situazioni personali, finché i familiari dei giovani tunisini partiti in mare verso l’Italia, e dei quali non si avevano più notizie, hanno chiesto aiuto per conoscere le risposte che nessuno gli aveva mai dato.
Così, nella sede di FTDES, i familiari dei dispersi hanno iniziato a incontrarsi per far sentire la loro voce. “Siamo madri, padri, sorelle e fratelli nello stesso modo in cui lo si è in Europa. Perché dunque il nostro affetto e il nostro dolore non hanno lo stesso valore che in un caso simile sarebbe riconosciuto ai familiari di giovani europei?” ha detto la madre di uno dei dispersi al Social Forum di Tunisi.
Se è vero che ognuno vale uno, è altrettanto vero che ogni dolore ha diritto di essere compianto. «Persino una verità drammatica può confortare chi ha visto partire e scomparire il proprio figlio, marito, fratello» ha dichiarato il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini.
Queste domande rischiano di restare inevase se non saranno sottoscritti nuovi accordi tra Paesi frontalieri e ratificate convenzioni internazionali; se il governo italiano non prenderà le distanze dalla Bossi-Fini e dalle normative a questa connesse.
Perché sono anche – io dico soprattutto – le politiche di controllo migratorio dell’ultimo ventennio ad aver legittimato il silenzio delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Lampedusa, anziché essere la Porta più a Sud dell’Europa, è diventa nell’immaginario collettivo un confine: la frontiera tra Italia e Nordafrica, dove viene esercitato il controllo. Ed è a quello stesso controllo che sono soggette le domande che non hanno trovato risposta, respinte come i tanti profughi richiedenti asilo che sulle coste italiane non sono mai approdati.
Nei giorni scorsi, il viceministro dell’Interno Bubbico e il sottosegretario Manzione hanno incontro Messaoud Romdhani, del Forum tunisino per i Diritti Economici e Sociali, insieme ai rappresentanti del CNCA, di Un ponte per e di Caritas Italiana, in merito alla sorte di quei migranti che hanno provato a entrare in Italia via mare e di cui si sono perse le tracce. I due esponenti del Governo si sono impegnati a promuovere un’indagine amministrativa sulle decine di dispersi tunisini nel naufragio avvenuto il 6 settembre 2012 a largo di Lampedusa e hanno dichiarato la propria disponibilità a progettare e sperimentare azioni che favoriscano il riconoscimento dei migranti che passano per mare.
Quest’apertura del governo mi sembra una feritoria ricavata nella frontiera mentale che separa due sponde di uno stesso mare e dentro cui molte delle domande senza risposta, ancora oggi, si strozzano. Proprio come tante volte si è strozzato in gola il grido di dolore delle madri tunisine.
Ci sono però anche segnali che lasciano sperare. L’impegno di chi, ogni giorno, incontra le persone più marginalizzate e contribuisce, col proprio lavoro, a cambiare gli equilibri sociali, economici e politici del nostro Paese. La storia che ho raccontato ne è un esempio: è frutto di un incontro avvenuto, lo scorso settembre, tra un gruppo di volontari e operatori del CNCA e i rappresentanti di alcune ong tunisine. La lettera da Tunisi, che vi invito a leggere, documenta quel viaggio.
L’altro è rappresentato dai tanti oggetti personali: fotografie, scarpe, diari, lettere d’amore, anelli, passaporti, banconote…che hanno trovato spazio nel Museo delle Migrazioni di Lampedusa. Uno spazio senza confini che conserverà tutto ciò che per anni è stato buttato via come spazzatura. «Vogliamo collegare la storia di Lampedusa con tutti i movimenti del Mediterraneo, creare un museo con la partecipazione degli stessi protagonisti. E non soltanto accumulare le loro cose, i loro scritti, ma studiarli con loro, vedere cosa loro ci raccontano», ha detto Giulio Cederna dell’Archivio delle Memorie Migranti.
Queste storie hanno bisogno di essere raccontate. E’ l’unico modo per non dimenticare le tragedie di cui siamo stati spettatori passivi e per non doverne documentare altre.