La politologa e docente all'università di Bologna in una lettera inviata al nostro sito critica aspramente quanto sostenuto su ilfattoquotidiano.it dalla costituzionalista. Che risponde: "Mi rallegro di essere collocata fra i ‘conservatori’ visto che, nella sua ottica, un illustre politico come Silvio Berlusconi è certamente da collocare tra i progressisti!"
“La governabilità è un artificio per garantire stabilità al potere”. Questo il titolo dell’intervista di Pierluigi Giordano Cardone a Lorenza Carlassare pubblicata due giorni fa su ilfattoquotidiano.it e in cui la costituzionalista, tra i 29 firmatari di un appello alla politica per fermare l’iter di approvazione della nuova legge elettorale, giudica in maniera molto severa l’Italicum pensato (e scritto) da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Un testo che, per la Carlassare come per gli altri giuristi che hanno aderito all’appello, è peggio del Porcellum. Il ragionamento della professoressa, però, è diametralmente opposto a quello di Sofia Ventura, politologa, docente all’università di Bologna ed editorialista. Sofia Ventura ha scritto e inviato al nostro sito una lettera per confutare il pensiero di Lorenza Carlassare.
Pubblichiamo integralmente la lettera di Sofia Ventura. Scriveteci nei commenti cosa ne pensate.
“Caro Direttore,
leggendo l’intervista della professoressa Lorenza Carlassare pubblicata sul Fatto.it non ho potuto trattenermi dal prendere carta e penna, o per meglio dire di far correre le dita sulla tastiera. Ciò che mi ha immediatamente colpito di questa intervista è che l’avvio dell’argomentazione contro le proposte di riforma scaturite dall’accordo tra Renzi e Berlusconi si sviluppa con riferimenti retorici tipicamente populisti, ovvero il richiamo alla generica categoria del “popolo”: “allentare il peso del popolo”; “mettere in ombra la volontà del popolo”; “distorcono la volontà popolare”. Una categoria appunto ambigua e generica che può servire a mille usi e che nel discorso populista, e a mio avviso anche nell’impostazione della Carlassare, insinua l’idea che vi sia un corpo collettivo (e indistinto) “buono” al quale si contrappone un qualche establishment “malvagio”.
La “rappresentanza”, poi, appare come lo strumento per tutelare questo “popolo”, per dargli voce. E affinché il principio della rappresentanza possa essere salvaguardato è necessario che siano rappresentati, appunto, molte voci e molti interessi, naturalmente in Parlamento (come se quell’aula rappresentasse l’unico universo dove può esprimersi la diversità sociale, politica e culturale … ma vabbè). Tutto questo si realizza, naturalmente, con un sistema proporzionale, secondo la professoressa oggi con quello uscito dalla sentenza della Corte costituzionale, ovvero – lo dico per i distratti – un sistema proporzionalissimo, non solo con distribuzione nazionale dei seggi (come purtroppo prevede anche l’Italicum), ma anche con soglie di sbarramento molto basse (2% per i coalizzati con il recupero del miglior escluso per ogni lista; 4% per i non coalizzati).
La studiosa, però, deve avere la percezione che la “frammentazione” non è una cosa buona o ben vista, perché tiene a precisare che si può avere pluralità e rappresentanza evitando una “vera frammentazione” con una soglia che corregga il proporzionale. Ma non si comprende cosa sia una “vera frammentazione”. Si gioca con le parole per nascondere la realtà. Certo è che, a suo avviso, quel pluralismo dovrebbe portare in parlamento anche la sinistra, che oggi è esclusa (dunque quella del Pd non è sinistra, evidentemente lo è solo quella che ancora non teme di definirsi comunista). E dovrebbe dare voce ai “lavoratori” (forse tutti quelli che votano partiti non di quella sinistra che piace alla Carlassare sono una massa di rentiers), secondo una visione piuttosto arcaica, basata su un tipo di società che non esiste più, dove i partiti di massa avevano il loro target elettorale in categorie di popolazione ben definite (a differenza di oggi), come la “classe operaia”. Comunque partitini del 2% dovrebbero trovare rappresentanza, tanto per chiarirci sulla vera o non vera frammentazione.
Però Giovanni Sartori, ormai molti anni fa, ci ha insegnato che nei sistemi politici contemporanei quando si massimizza la rappresentatività, ovvero si privilegia l’obiettivo di rappresentare in Parlamento tutte le opzioni politiche presenti nella comunità politica, inevitabilmente si compromette la governabilità, ovvero la possibilità che si formi una maggioranza parlamentare coesa in grado di esprimere un governo altrettanto coeso. Ma secondo Lorenza Carlassare questo è un falso problema, perché la “governabilità è una sciocchezza”, dal momento che così come viene oggi proposta “sembra mirare solo alla stabilità”. E qui, mi spiace dirlo, siamo di fronte a un ragionamento che confonde platealmente piani logici diversi e produce un’affermazione falsa. La costituzionalista, infatti, mescola impropriamente la questione generale del come produrre governi funzionanti (questione alla quale non fornisce alcuna risposta) con la polemica di oggi contro il governo Letta, che spaccia la propria “stabilità” immobile per governabilità. E arriva perciò a dire una cosa che semplicemente non è vera, cioè che gli autori della legge oggi in discussione mirano con i loro “artifici” a garantire la conservazione degli esecutivi. E ciò non è vero perché quella legge garantisce solo l’individuazione di chi (partito o coalizione) dovrà formare il governo. Non garantisce affatto la “conservazione degli esecutivi”, che rimane soggetta agli imprevisti della politica e della logica parlamentare. Anzi, uno dei limiti dell’Italicum è proprio che, favorendo coalizioni, in potenza compromette la futura stabilità dell’esecutivo, limite solo in parte corretto da soglie di sbarramento alte, ma naturalmente troppo alte per la Carlassare.
D’altro canto, è più in generale che nelle sue parole si coglie un difetto di coerenza tra principi sostenuti e conseguenze logiche ed empiriche. Come si può, ad esempio, proporre un proporzionale tendenzialmente molto puro come quello uscito dalla Corte e al contempo sostenere che con quel sistema non si avrebbero più “innaturali coalizioni con due opposti”, quando invece il Parlamento che risulterebbe da esso, con tre grandi forze, nessuna in grado di raccogliere una maggioranza coerente, altro non potrebbe che esprimere ancora una volta un governo di larghe intese tra Pd e Forza Italia?
In conclusione, la costituzionalista nostalgica della Prima repubblica (quella stessa Repubblica che ha messo in moto tanti dei meccanismi perversi che hanno prodotto i danni con i quali oggi ci misuriamo) ci dice che in Italia il bipolarismo non è possibile perché è possibile soltanto in una società omogenea e dobbiamo farcene una ragione. Chissà se considera quella gli Stati Uniti, dove addirittura c’è un sistema bipartitico, una società omogenea, oppure se si è mai accorta che la Francia ha una società e una cultura politiche non meno complesse delle nostre e ciò nonostante è riuscita, con buone istituzioni e regole elettorali, a produrre una competizione bipolare? Per non parlare della bipartitica Spagna. La tesi dell’eccezionalità dell’Italia è sempre molto in voga tra i conservatori, ma basta dedicarsi un poco ad uno sforzo di comparazione e si può comprendere che essa è in realtà soprattutto strumentale ad un atteggiamento controriformista.
E in conclusione dico alla professoressa Carlassare, che no, non ce ne faremo una ragione. Siamo in tanti a pensare che l’Italia possa sfuggire al mediocre futuro di un paese minore e periferico, ostaggio della sua ingovernabilità, adottando finalmente regole che la avvicinino alla fisiologia delle grandi democrazie. E quelle regole non sono quelle consociative e proporzionalistiche di un passato del quale lei ha nostalgia, ma quelle competitive e maggioritarie che rendono davvero i cittadini (non un generico ‘popolo’ ad uso e consumo delle oligarchie) un po’ più padroni del loro destino”.
Una presa di posizione forte e ‘ad personam’. Per questo abbiamo chiesto alla professoressa Lorenza Carlassare di controreplicare.
“Troppe pagine ci vorrebbero per rispondere alla prof. Ventura e chiarirle parole e concetti della Costituzione con le quali i politologi sembrano non avere sempre dimestichezza . ‘Popolo’ è parola dell’art.1 , dove la formula “la sovranità appartiene al popolo” fu preferita ad “emana dal popolo” per sottolineare – si legge negli Atti della Costituente – che la sovranità è del popolo e in esso rimane , neppure con l’elezione si trasferisce ad altri. Lo Stato apparato, infatti – chiariva Livio Paladin – non è che lo strumento attraverso il quale il popolo esercita la sua sovranità e quindi deve sempre attenersi agli orientamenti del popolo sovrano, anche nel loro eventuale mutare (e la stabilità-governabilità?). Solo con la coerenza fra l’azione politica e gli orientamenti degli elettori “la democrazia funziona e consegue il suo scopo”; altrimenti si ha la “dissoluzione della democrazia”.
Il popolo non è un tutto unitario, io certo non lo penso ed anzi insieme alla migliore dottrina costituzionalistica mi sono sempre battuta contro tale concezione sostanzialmente autoritaria, che sta alla radice dell’ idea ancora di moda della “democrazia immediata”, del popolo che elegge il governo direttamente (saltando il Parlamento), con designazione del Capo già al momento delle elezioni. Quell’idea che ha indotto Silvio Berlusconi a considerarsi, come Premier eletto dal popolo, l’Unto del Signore e quindi come un soggetto sostanzialmente immune. La sovranità, oltre che dal popolo collettivamente come corpo elettorale, può essere esercitata anche individualmente da ciascuno dei membri del popolo (perché a ciascuno appartiene) mediante l’esercizio delle libertà: di pensiero e di critica politica, di riunione, di associazione . In particolare “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale”( art.49), dove, come ben si vede, il soggetto della proposizione sono i cittadini, non i partiti, anch’essi solo strumenti della loro partecipazione.
Credo che in una democrazia costituzionale pluralista (ben diversa da una democrazia autoritaria o anche solo maggioritaria) dove la maggioranza vittoriosa deve trovare limiti e freni nell’esercizio del potere (questo è il senso del costituzionalismo), non sia consentito escludere dalla rappresentanza una parte dei cittadini. Nella sentenza n. 1 del 2014, dichiarando illegittima la legge elettorale, la Corte costituzionale ha lamentato la “divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà del cittadino espressa attraverso il voto”, e “l’alterazione del circuito democratico basato sul principio fondamentale dell’eguaglianza del voto”. Principio che “esige che ciascun voto contribuisca egualmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi”.
Che dire di una legge come quella proposta da Berlusconi–Renzi in base alla quale il voto del 35%, ossia il voto di coloro che hanno votato per il partito che la raggiungerà questa percentuale, grazie al premio di maggioranza vale quasi il doppio del voto di quel 65% di elettori che ha votato diversamente? E che dire delle alte soglie di sbarramento che determinano tante gravi esclusioni? Ho sempre considerato illuminante a proposito del maggioritario, dei premi, delle soglie elevate, un vecchio discorso di Giuliano Amato che cerco di sintetizzare: le domande sociali sono troppe ed è difficile farvi fronte senza intaccare interessi consolidati. Dunque l’unica via percorribile è quella di ridurre i canali di trasmissione delle domande in modo da non farle arrivare tutte alle sedi istituzionali. E, infatti, nell’ultimo meraviglioso ventennio non sono riuscite ad arrivare. Sorvolo sul discorso della sinistra: di certo mi è difficile considerare ‘sinistra’ un partito il cui segretario, di fronte ad una lotta tra la FIOM e Marchionne, dice – come Renzi ha detto- che Marchionne ha ragione. E, ancora, quali sponde parlamentari, quali sostegni istituzionali hanno trovato i lavoratori licenziati, mortificati, buttati fuori? In un tempo in cui sempre più forte è l’insoddisfazione dei cittadini e sempre più forte la richiesta di partecipazione, una simile legge elettorale non appare proprio in sintonia con i loro desideri. E il rischio politico, purtroppo, a parte le astensioni, non mi sembra leggero. Concludo rallegrandomi di essere collocata fra i ‘conservatori’ visto che, nella sua ottica, un illustre politico come Silvio Berlusconi è certamente da collocare tra i progressisti!”.