Si è creata così una divaricazione clamorosa tra ciò che rappresenta il sentimento esterno al Pd – e cioè quei tre milioni di elettori-cittadini-militanti che hanno sospinto il buon Matteo sino alla cima – e un sentimento interno di forte avversione al vento di cambiamento che potrebbe spazzare via un’intera nomenclatura (con relativa ricerca di un lavoro, finalmente). Se a tutto questo aggiungete che come primo, evidente, gesto di rottura, fors’anche un filo provocatorio, il sindaco di Firenze ha convocato al Nazareno Silvio Berlusconi per farci le riforme insieme, capirete perché il rapporto tra Matteo Renzi e il partito che dirige sarà particolarmente inquieto sino al momento in cui si tornerà a votare.
Solo in quel momento, infatti, con una composizione delle liste elettorali finalmente «amica», Renzi avrà a disposizione un partito tutto «suo», che risponderà in termini di idee e conseguentemente anche numerici alla sua politica (anche se si notano già ammorbidimenti sospetti all’interno del “vecchio” Pd).
Qui però si vuole segnalare un’assenza straordinaria, che non avrebbe teoricamente parentela stretta, né correlazione con il fiume straripante di consenso che ha portato Matteo Renzi a «prendersi» il Pd. E che si può condensare in una domanda: come mai questo enorme afflato di cui ha goduto ai gazebo – quasi tre milioni di voti – non si traduce automaticamente in un sostegno evidente sui social? Da qui la sottodomanda forse un poco più cruda e diretta: cari renziani, perché avete paura di mostrarvi, di commentare, di scazzarvi con chi non è d’accordo con voi, siete forse paurosi di natura o preferite non entrare in contrasto con gli altri vostri “fratelli” del Partito Democratico?
Percentualmente, nel dibattito che scorre sulle piattaforme internettiane il renziano è come un tempo la temperatura delle località siberiane: non pervenuto. A questo interrogativo, sul piano della comunicazione politica certamente significativo, si possono dare tre risposte possibili:
a) il renziano non ha ancora un’identità precisa. Non sa, insomma, se dichiararsi con orgoglio di sinistra, oppure un moderato, un liberale, uno più sociale, un borghese. Insomma, è un po’ un pesce fuor d’acqua che preferisce non fare brutte figure e dunque sta muto (atteggiamento peraltro non completamente disprezzabile). Se così fosse, allora Renzi dovrà rivedere qualcosa cercando una sintonia più identitaria con il suo popolo.
b) il renziano, ehm ehm…, non è esattamente uno di sinistra (ma neanche un destrorso, questo dev’essere chiaro) per cui francamente non sa che linguaggio tenere in una casa, in un ambiente, con persone, dove nulla lo riconduca alle cose care. È in chiarissimo imbarazzo, vorrebbe magari scazzarsi sui delicatissimi temi del lavoro, ma poi teme di essere considerato uno squallido «padroncino» e così lascia la presa.
c) il cittadino renziano manda sempre avanti Renzi (e quella pattuglia di deputati che battono le televisioni in nome e per conto del capo) perché sente di non far parte di alcuna storia, perché alle sue spalle non c’è nulla, se non i fallimenti della vecchia politica, e davanti una grande incertezza, perché mette acriticamente i suoi sentimenti nelle mani del leader e sembra dirgli: vai avanti tu, azzannali tutti. Ma poi, all’intervento diretto, incisivo, magari anche battagliero sui social, preferisce ancora il silenzio.
C’è poi una quarta ipotesi, forse la più delicata. Che il renziano (ancora) non esista. Né come categoria dello spirito, né come rappresentanza politica. Nessuno – almeno sino a ora – vuole dirsi renziano a tutto tondo. Con orgoglio. Già, cosa vuol dire oggi essere renziani?