Tre agenti dei servizi in trasferta in un carcere inglese, per chiedere aiuto a Cosa Nostra e bloccare le indagini di Giovanni Falcone: tra loro anche Arnaldo La Barbera, allora capo della squadra mobile di Palermo. A raccontare l’inedito retroscena (anticipato nei giorni scorsi in un’intervista a Repubblica) è Francesco Di Carlo, il boss di Altofonte con entrature tra gli 007 di mezzo mondo. Collaboratore di giustizia dal 1996, Di Carlo doveva testimoniare in video conferenza al processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, ma invece è comparso a sorpresa di persona all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo.
“Quand’ero detenuto in Inghilterra – ha detto Di Carlo ai giudici della corte d’assise – vennero a trovarmi un tale Giovanni, forse uno dell’esercito, una persona inglese e un altro, che poi scoprii essere La Barbera, vedendo la sua foto sui giornali. Giovanni mi disse che si doveva procedere a fare andare via Falcone da Palermo, mi disse tante cose brutte su Falcone, che stava facendo grossi danni. Bisognava mandarlo fuori al più presto”. Il collaboratore di giustizia colloca quella visita in carcere intorno al 1988, e quindi prima del fallito attentato dell’Addaura. “Non mi hanno mai parlato di volere uccidere Falcone – ha specificato Di Carlo – ma solo di farlo andare via da Palermo: io a quel punto mandai un biglietto a Salvo Lima, e scrissi che questi amici potevano essere utili a tutti, perché avevano anche promesso di aiutarmi”.
Il boss di Altofonte, che ha alle spalle una lunga carriera da narcotrafficante a Londra, ha sfogliato davanti al pm Nino Di Matteo il suo personale album di ricordi: Di Carlo, trait d’union tra Cosa Nostra e ambienti delle istituzioni, ha raccontato di aver avuto rapporti strettissimi con il generale Vito Miceli, il piduista che il Servizio segreto della difesa negli anni ’70, e con il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi nello stesso periodo. “Con lui avevo un’assidua frequentazione: quando andavo a Roma, pranzavamo spesso insieme, nonostante io fossi in quel periodo latitante”.
Nella deposizione dell’ex padrino di Altofonte, ha trovato spazio anche uno dei dieci imputati del processo sul Patto tra pezzi delle istituzioni: secondo Di Carlo, infatti, il generale Antonio Subranni sarebbe stato vicino alle cosche già nel 1978, per insabbiare velocemente le indagini sull’omicidio di Peppino Impastato, assassinato dagli uomini di don Tano Badalamenti, il 9 maggio del 1978 a Cinisi. “Badalamenti aveva interessato Nino e Ignazio Salvo per parlare con Subranni. Ho saputo che i cugini Salvo si sono rivolti a Subranni per fare chiudere l’indagine sulla morte di Peppino Impastato. Dopo poco tempo Nino Badalamenti mi ha detto: la cosa si è chiusa”.
Le indagini su Impastato, affidate ai carabinieri di Subranni, vennero in un primo momento effettivamente archiviate: l’ipotesi di omicidio venne scartata, mentre l’attivista di Democrazia Proletaria venne accusato di essere saltato in aria mentre allestiva un attentato ai binari della ferrovia. Alcuni militari dell’Arma, sequestrarono diverso materiale da casa Impastato, in seguito mai più ritrovato, quando il pm palermitano Francesco Del Bene ha riaperto le indagini per fare luce sui depistaggi che coprirono i veri assassini di Impastato.
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