Circa un anno fa – dicembre 2012 – in articulo mortis del governo di Rigor Monti, come lo chiama Dagospia, è stata approvata la legge 233 per rendere equi i compensi dei giornalisti che collaborano con testate che godono di finanziamenti pubblici o altre forme di benefici da parte dello Stato. Che cosa significa equo? Significa, secondo la legge, che il compenso per un articolo deve essere “coerente” con quello dei colleghi assunti. E, come da articolo 36 della Costituzione, proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro. Il rischio per chi sgarra è grosso: perdere i finanziamenti o benefici.
Un miracolo la 233/2012 sia per la tempistica sia perché il settore dei freelance sembrava fosse impossibile da regolamentare in Italia, un terrain vague dove quasi tutto è consentito de jure e di fatto qualsiasi cosa. È passato appunto oltre un anno e la commissione formata ad hoc e presieduta dal sottosegretario all’editoria, Giovanni Legnini, ha fissato a breve la fine dell’iter per determinare in concreto a quanto corrisponda un equo compenso. Ecco che però arriva la sorpresa: mentre la legge si riferiva semplicemente e chiaramente a tutti i giornalisti autonomi vale a dire non subordinati, la commissione, dopo un parere dello studio Treu – eh sì c’è l’ho zampino di Tiziano Treu, già Ministro del Lavoro del governo Dini e sdoganatore dei contratti interinali, in questo regalo post-befana agli editori -, restringe il campo di applicazione alle prestazioni che presentano carattere di ‘dipendenza’.
Senza cedere per il momento alla malafede, diciamo che in Italia l’ufficio complicazioni affari semplici è sempre al lavoro – e in particolare per quanto riguarda il lavoro -, e ci piace il sistema elettorale maggioritario ma con una percentuale di proporzionale e lo scorporo pro-quota, insomma queste cose qui per cui un cammello, come diceva qualcuno, è un cavallo visto da una commissione. Fuggiamo da Bisanzio: diceva Iosif Brodskij. E dai bizantinismi aggiungiamo estendendo il consiglio dalla Russia all’Italia. Ma il punto purtroppo è un altro: quello del restringimento drastico del campo di applicazione della legge.
Il lavoratore è sì autonomo, cioè non assunto per semplificare, ma beneficia dell’equo compenso solo se dipende economicamente da una testata (o editore se collabora con più testate dello stesso editore), ovverosia solo se quella è la sua fonte di reddito primaria. Facciamo il 70/80 per cento di reddito spannometricamente? Se invece un giornalista freelance collabora con due o tre testate diverse, o meglio spalma il proprio reddito su più editori, come nella maggior parte dei casi, non ha diritto a compensi equi ma si tenga pure quelli iniqui. La delibera interpretativa è stata approvata con il voto favorevole del presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, quello del presidente del sindacato dei giornalisti, Fnsi, Giovanni Rossi, e di altri soggetti aventi un ruolo più “tecnico” tra cui l’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti.
Va detto che Iacopino, prima di risolversi a firmare, ha chiesto un parere allo studio Pessi, insomma ha voluto sentire un’altra campana giuslavoristica ottenendo un’opinione contraria a quella di Treu. Lo studio fa capo a Roberto Pessi, prorettore della Luiss e docente di diritto del lavoro. La legge si può applicare a tutti gli autonomi. E del resto se è stata approvata così un anno fa non si vede perché deve saltare fuori Treu a dire che no, mica è la Corte Costituzionale. Del resto è stato Legnini a tirarlo in ballo. Ma il parere Pessi è stato ignorato.
Oltre a limitare notevolmente la portata della equo compenso, prestando il fianco a ricorsi contro il regolamento applicativo che sarà approvato, questa interpretazione crea una confusione notevole. Consentendo magari l’aggiramento di quel che resta dell’equo compenso dopo il passaggio per lo studio Treu: e cioè poco. Come si fa a stabilire in partenza qual è la percentuale di reddito che uno ottiene dagli editori con cui collabora? Casomai si capirà a fine anno… E intanto? Intanto si viene pagati senza equo compenso per vedersi integrare il reddito dopo la fine dell’anno? Sembra tutto assurdo, come sempre. Come se il campo normativo dei giornalisti non assunti non fosse già abbastanza complesso tra cococò, partita Iva, ritenuta d’acconto, diritto d’autore, Inpgi eccetera, per creare questa ulteriore fattispecie del giornalista autonomo ma dipendente che collabora con testate il cui editore gode di finanziamenti o altri benefici.
Il fatto che gli editori non abbiano firmato questa delibera interpretativa – insomma questo passaggio – significa che loro l’equo compenso non lo vogliono né per tutti né per pochi. Non vogliono pagare equamente i collaboratori che peraltro ormai superano il numero degli assunti, in particolare nel settore periodici, ma non solo. Fuori dal perimetro privilegiato del contratto, che si restringe sempre più, va bene che ci sia il far west, la mancanza totale di regole? Poi ci si stupisce che nessuno assume e si fanno pure nuove testate senza giornalisti. L’opposizione degli editori significa anche un’altra cosa: i giornali che godono di finanziamenti diretti – la cosiddetta stampa di partito o comunque legata a movimenti anche solo di facciata – non sono moltissimi ma quelli che godono di aiuti da parte dello Stato molti di più: detrazioni fiscali, soldi per i prepensionamenti – strumento cofinanziato dallo Stato e molto usato per alleviare le crisi aziendali mandando a riposo colleghi sulla sessantina e con stipendi pesanti anche solo per scatti di anzianità e vecchi contratti.
Rientrano anche queste forme di sussidio statale nell’equo compenso? La legge parla di “benefici” quindi la formulazione è molto generica e potrebbe comprenderle. Di qui la paura degli editori. Sullo sfondo c’è pure, non dimentichiamolo, la difficile trattativa per il rinnovo del contratto dei giornalisti in momento di crisi apocalittica, e il rapporto tra sindacato e editori va visto in un’ottica più ampia di scienza del possibile. Bisogna infine dire che non tutti i giornalisti autonomi sono favorevoli all’equo compenso: alcuni, pagati più o meno decentemente, temono che se le tariffe elaborate saranno più basse di quelle che percepiscono, gli editori ne approfitteranno per abbassare i compensi.