Una ordinanza della Provincia impone lo smaltimento urgente dei rifiuti pericolosi della Ve-part, discarica cessata alla periferia sud-est della città. Rilevate perdite dieci volte superiori ai limiti di legge. E le vasche sono pericolosamente piene fin quasi alla superficie
Un’ex discarica semi abbandonata alle porte di Brescia. Un cocktail di veleni, rifiuti speciali pericolosi interrati negli anni ’80, quando ancora per la legge si chiamavano “tossico-nocivi”. E un nome, quello di Francesco Colucci, l’imprenditore arrestato il 22 gennaio scorso per la bonifica dell’ex Sisas di Pioltello.
Sono gli ingredienti di un disastro annunciato, le cui conseguenze non sono chiare nemmeno ai tecnici delle autorità sanitarie: un fiume nero di percolato che rischia di finire sui campi e nelle rogge della periferia sud-est di Brescia. La discarica si chiama Ve-part, dal nome della società di Roma che la gestisce, di proprietà della Co.pa.fi di Francesco, Pietro e Nicola Colucci. I tre fratelli napoletani che in Lombardia sui rifiuti hanno costruito un vero e proprio impero (Waste Italia,Daneco Impianti, Sostenya solo per citarne alcune).
Lo scorso 20 gennaio la Provincia ha emesso un’ordinanza che intima alla Ve-part di mettere urgentemente in sicurezza l’area: la discarica perde Pcb verso la falda acquifera, il cancerogeno policlorobifenile simile alla diossina, con valori dieci volte superiori ai limiti di legge (0,0998 microgrammi per litro contro un limite di 0,01). Un nuovo focolaio di contaminazione da Pcb in una città che è già Sito inquinato di interesse nazionale a causa dell’industria che ha prodotto quelle sostanze per decenni, la chimica Caffaro.
Ma non è solo il Pcb a preoccupare le autorità provinciali: “La vasca della discarica – si legge nel testo dell’ordinanza – è piena di percolato fino al livello prossimo alla superficie” perché la Ve-part non lo sta smaltendo, nonostante le diffide e le segnalazioni all’autorità giudiziaria. Che fino ad ora non sembrano aver avuto seguito. Una gestione, quella dei fratelli Colucci, che “non dà alcuna garanzia riguardo alla tenuta della barriera di confinamento” del percolato, misurato dall’Ufficio rifiuti a meno di mezzo metro dal piazzale sovrastante e dai canali agricoli.
A minacciare l’ambiente è un liquido scuro, distillato di scorie della chimica e della siderurgia interrate in una delle prime discariche di rifiuti tossico-nocivi autorizzate dalla Regione Lombardia nel 1982: fango galvanico (cromo esavalente), fango da acidi (cromico e solforico), da abbattimento fumi, acque di verniciatura e tintoria, morchie oleose, terre di fonderia e di bonifiche, fanghi da impianti di trattamento chimico-fisico. Rifiuti industriali pericolosi che vengono da lontano.
Per tutti gli anni ’80 la discarica è stata la “fossa nera” della società Ecoservizi di Andrea Calubini, consigliere della Compagnia delle Opere lombarda e operatore tra i più esperti nello smaltimento dei rifiuti speciali (tuttora proprietario dell’area tramite la holding Intergreen Spa che nel ’99 ha affidato la discarica cessata alla Ve-part). La sua Ecoservizi fino al 2004 smaltiva da sola un quarto dei rifiuti industriali d’Italia e ora è di proprietà della Systema Ambiente dell’avvocato Manlio Cerroni, il ras della “monnezza” romana arrestato lo scorso 9 gennaio per traffico di rifiuti, che a Brescia ha la sua costellazione di società per i rifiuti pericolosi.
Per capire il peso della Ecoservizi di Calubini – che quella discarica ha riempito – basta ricordare la gara, vinta al ribasso nel 1988 contro colossi come Montedison ed Enichem, per aggiudicarsi lo smaltimento dei rifiuti della Karin B, la “nave dei veleni” intercettata e rispedita indietro da Port Koko in Nigeria con a bordo i rifiuti tossici italiani.
Ora l’essenziale è che qualsiasi sostanza si trovi nella discarica Ve-part non fuoriesca nell’ambiente. Anche perché nessuno sa che cosa sia stato effettivamente conferito in quelle vasche. A partire dal Pcb che – stando alle autorizzazioni regionali – non dovrebbe trovarsi in discarica. Tra i veleni “inattesi” anche il radioattivo Cesio 137, trovato nel percolato nel 2008 e in seguito nemmeno più cercato perché “non presente in falda”, come confermato dalle analisi successive. Oggi la holding di Calubini, la Intergreen Spa, è una dei principali operatori del settore ed è candidata alla bonifica dal Pcb e dai veleni del Sito inquinato nazionale “Brescia-Caffaro”, un affare da almeno un miliardo e mezzo di euro.
di Andrea Tornago